Il premier indiano Narendra Modi ha parlato più volte del suo paese come la «madre della democrazia», essendo l’India la repubblica parlamentare di gran lunga più popolosa del mondo. Ma, come affermato in un severo editoriale della redazione del Financial Times, «se è così, allora l’aumento della repressione contro i partiti d’opposizione ci dice che la matriarca dei governi rappresentativi non è affatto in ottima salute». Tra pochi giorni in India inizia uno dei più grandi processi elettorali della storia. Dal 19 aprile al 1° giugno un miliardo di indiani sarà chiamato alle urne per eleggere il nuovo parlamento, una consultazione di massa lunga 44 giorni in cui Modi mira al terzo mandato, diventando così il premier più longevo dopo Jawaharlal Nehru (in carica dal 1947 al 1964), il leader dell’India indipendente postcoloniale che collocò il paese in una posizione di neutralità tra il blocco occidentale e orientale. Dal 2014 a oggi Modi ha costruito una solida base politica cercando di affermare una forte identità induista in patria e di proiettare la potenza dell’India all’estero, in buona parte riuscendoci. Il leader indiano e le figure chiave del suo Bharatiya Janata Party (Bjp) però sono accusati di alimentare razzismo e settarismo, di minare i valori laici della repubblica indiana, e di prendere di mira giornalisti, avversari politici e gruppi della società civile.

La vena autoritaria di Modi infatti sta crescendo di pari passo con il riconoscimento internazionale del paese che governa da quasi dieci anni, diventando sempre più difficile da ignorare per gli Stati Uniti e gli altri governi occidentali, che vedono nell’India una potenza democratica in ascesa con cui costruire una partnership privilegiata per contrastare l’assertività della Cina e l’aggressività della Russia.

La svolta autoritaria

In vista delle elezioni gli attacchi del governo Modi alla libertà di espressione e alle altre forze politiche sono aumentati, e anche la retorica nei confronti dei partner occidentali è diventata più spregiudicata e a tratti ostile. Arvind Kejriwal, governatore dello stato di Delhi e leader influente dell’opposizione, è in prigione dal 21 marzo con l’accusa di frode sulle vendite di alcolici. Pochi giorni prima di questo arresto eclatante i conti correnti bancari dell’Indian National Congress (Inc) sono stati congelati a causa di un contenzioso con il fisco. Rahul Gandhi, esponente di punta del partito, ha detto che il Congress non potrà effettuare i pagamenti per le spese della campagna elettorale. Di fronte a queste forzature la Casa Bianca ha espresso preoccupazioni e chiesto chiarimenti, affermando che gli Stati Uniti incoraggiano processi «legali equi, trasparenti e tempestivi» per ciascuna di queste questioni. Dichiarazioni simili sono arrivate anche dalla Germania.

Nuova Delhi ha reagito con sdegno, convocando alti funzionari delle ambasciate statunitense e tedesca, affermando in un comunicato che la richiesta di Washington è «inaccettabile e ingiustificata», poiché «in India i processi sono guidati solo dallo stato di diritto, e chiunque abbia un’etica simile, soprattutto nelle altre democrazie, non dovrebbe avere difficoltà ad apprezzare questo fatto».

La spaccatura del paese

Modi va molto fiero delle performance economiche dell’India e promette di raddoppiare il Pil entro il 2030 per far diventare l’economia indiana la terza del mondo (ora è la quinta). Ma le politiche nazional-induiste del Bjp stanno accentuando il divario territoriale tra il nord del paese, più arcaico e arretrato, e il sud, più laico e dinamico. Nei cinque stati dell’India meridionale – Andhra Pradesh, Karnataka, Kerala, Tamil Nadu e Telangana – si trovano la maggioranza delle start-up, i campus delle università internazionali, i centri di ricerca e sviluppo, le imprese più sofisticate e le multinazionali occidentali che stanno costruendo impianti per ridurre la presenza in Cina (come la nuova fabbrica per iPhone di Apple).

Questi stati rappresentano un quinto della popolazione di 1,4 miliardi di abitanti ma contribuiscono al 31 per cento del Pil, e rappresentano un fattore di crescita indispensabile alla modernizzazione e allo sviluppo dell’industria indiana. In questa parte del paese la retorica nazional-induista di Modi non ha molto successo e il consenso per il Bjp è minoritario, alimentando un clima di diffidenza e sospetti tra leadership locali e governo centrale. Il timore dei più pessimisti è che il terzo mandato trasformi Modi in un autocrate pronto a sconvolgere l’equilibrio costituzionale. I leader politici degli stati meridionali lo accusano di averli presi di mira con false indagini sulla corruzione, di trattenere i fondi del governo centrale per metterli in difficoltà, e di imporre un livello ingiusto di tasse per sovvenzionare gli stati del nord-ovest governati dal Bjp.

Forzare la mano

Al G20 di Nuova Delhi a settembre dell’anno scorso Modi accompagnava a piedi nudi i leader occidentali a deporre corone di fiori al memoriale di Mahatma Gandhi, presentando l’India come il tedoforo della coesistenza pacifica e dell’inclusività. Ora invece sembra determinato a forzare la mano ogni volta che lo ritiene necessario, presupponendo che Washington non romperà il suo impegno geopolitico con Nuova Delhi. La portata degli attacchi del Bjp contro gli avversari politici sorprende gli osservatori, secondo tutti i sondaggi Modi riuscirà facilmente a ottenere il terzo mandato e una solida maggioranza, non sembra esserci alcun motivo di abbracciare una svolta autoritaria che potrebbe diventare controproducente.

Il leader indiano evidentemente è consapevole che può osare ancora molto prima di scatenare l’allontanamento dei partner occidentali, e probabilmente ha ragione: l’intensificarsi dei legami con Nuova Delhi ha poco a che vedere con i valori democratici condivisi e molto con le reciproche preoccupazioni nei confronti di Pechino. Ma il rischio è di trovarsi ad aver stretto un’alleanza con l’ennesimo autocrate che si è impadronito di una democrazia, al comando di una potenza continentale nell’Indo-Pacifico.

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