C'è una strana accondiscendenza verso l'estrema destra che si aggira per il mondo. Prendiamo il caso più noto di queste ore, la sconfitta di Jair Bolsonaro in Brasile e la lunga attesa affinché riconoscesse il risultato.

Ammissione che alla fine non c'è stata. Dopo ben 42 ore dalla proclamazione del trionfo di Lula, il presidente sconfitto ha convocato i giornalisti a casa sua (nemmeno nella sede della presidenza), li ha tenuti in piedi per un'ora abbondante e poi è arrivato leggendo un foglietto per due minuti ed è scappato via. Se avesse sostituito la cerimonia con quattro tweet, sua consueta forma di comunicazione, avrebbe risolto la seccatura. Ma passi.

Le accuse

Peggio è quello che ha detto, e soprattutto non ha detto. Nella giornata in cui mezzo Brasile è rimasto paralizzato a causa dei blocchi stradali dei suoi fedelissimi camionisti - inconsolabili per l'esito delle urne - ha esordito sostenendo che «i movimenti popolari sono frutto dell'indignazione e del sentimento di ingiustizia per come si è svolto il processo elettorale».

Sottintendendo quindi che qualcosa di strano o fraudolento c'è stato, e i suoi hanno ragione da vendere per essere nervosi. Poi, senza condannare o considerare una violenza aver rovinato la giornata a milioni di persone, ha aggiunto che «i nostri metodi non possono essere quelli della sinistra, come le invasioni di proprietà e gli attentati al diritto di andare e venire».

Giro codardo di parole per non urtare la sensibilità di migliaia di energumeni impegnati a bruciare pneumatici e prendere a calci automobili, ma che - chissà perché - i media brasiliani hanno interpretato come una condanna ai blocchi stradali.

Ha proseguito senza ammettere la sconfitta, non ha mai nominato l'avversario Lula e lamentandosi di aver affrontato «tutto un sistema contro» – da noi si direbbe i poteri forti – ha ringraziato i 58 milioni di brasiliani che gli hanno dato fiducia. Poi si è autoelogiato dicendo che solo lui è un vero democratico, non gli avversari che lo accusano del contrario. Fine del discorso.

La transizione già avviata

Fuggito in tutta fretta dalle domande, è toccato al suo braccio destro Ciro Nogueira ammettere che la transizione verso il nuovo governo Lula è già cominciata, e spiegato l'iter. Insomma Bolsonaro dice di aver perso senza dirlo, lascia l'incombenza al sottoposto, e il Brasile tira un sospiro di sollievo. È finita, finalmente. Giornali e tg trasudano soddisfazione, chissà cosa poteva dire e fare piuttosto.

Ma non è così. Senza condannare chiaramente le violenze nelle strade, anzi aizzando i suoi per «l'ingiustizia del processo elettorale», non si capisce perché questa estrema destra incattivita e da lui armata fino ai denti (gli episodi di violenza sono quotidiani) dovrebbe ritirarsi in buon ordine. O limitarsi all'opposizione civile che le dovrebbe spettare per i prossimi quattro anni.

E questa accondiscendenza che suona strana: come se non aver scatenato i carroarmati del suo esercito contro l'esito elettorale o non aver fatto attaccare il Congresso in stile Donald Trump sia sufficiente per guadagnare la patente di democratico.

Jair Bolsonaro ha tentato di minare la democrazia brasiliana tutti i giorni per quattro anni. Se non è andato oltre le parole, e i fatti sono stati contenuti, è perché le istituzioni sono forti e la società non l'ha seguito, tranne i suoi facinorosi alimentati da fake news preparate dal figlio Carlos nello stesso palazzo presidenziale (c'è una inchiesta della magistratura in corso e ora che i sigilli cadranno può succedere di tutto).

Bolsonaro non ha potuto mettere in pratica un golpe sudamericano classico, in stile Novecento, perché oggi sarebbe impossibile. Se avesse vinto le elezioni domenica scorsa avrebbe invece scelto la strada 2.0, quella del nostro millennio, dove le dittature di destra e sinistra nascono lentamente, sostituendo i giudici e zittendo i media: vedi Venezuela e Nicaragua ma anche Russia e Turchia.

Il suo sogno è fallito, probabilmente sta uscendo di scena per sempre, ma non è chiaro perché debba essere elogiato: se l'estrema destra non può ripetere gli anni Trenta in Europa e gli anni Settanta in Sudamerica non per questo le democrazie sono meno a rischio quando arrivano al potere i titolari della nostalgia di quei tempi. Fanno quel che possono.

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