Ucraina di sangue, anno tre. I tank russi che avanzano ancora nel Donbass, i soldati di Kiev che resistono nel Kursk. Parlare di pace è facile, parlare di negoziati è maledettamente difficile. Ma con l’avvicinarsi del terzo anniversario dell’aggressione russa e a fronte del frenetico attivismo di Donald Trump (che oggi afferma di aver già avviato una qualche forma di trattativa, sia pur non ufficiale, con il capo del Cremlino) il tema di una possibile fine del conflitto è di nuovo balzato in vetta all’agenda delle superpotenze.

Lo storico tedesco Peter Brandt – figlio del cancelliere dell’Ostpolitik Willy Brandt e grande indagatore delle relazioni tra Occidente e Russia – propone un approccio globale alla discussione, forse inedito, certamente sofferto: un accordo per una tregua a cui far seguire la fine del conflitto sarà possibile solo in presenza di una speculare ripresa di un negoziato complessivo sul controllo degli armamenti tra Washington e Mosca, a cui si aggiunga anche la Cina.

Professor Brandt, sono passati tre anni dall’invasione dell’Ucraina. Adesso si torna a parlare di una possibile fine del conflitto. Ma realisticamente che caratteristiche può avere un negoziato?

La valutazione di quanto accade dipende innanzitutto dal carattere che assegniamo al conflitto. Dal mio punto di vista, si tratta di una legittima guerra di difesa dell’Ucraina secondo l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, ma anche di un duello intorno all’egemonia nell’Europa orientale tra la Russia di Putin da una parte e gli Usa e la Nato dall’altra. A questo si aggiunge la storia dell’Ucraina precedente alla guerra: l’Occidente ha contribuito notevolmente all’acutizzazione della situazione, almeno a partire dall’invito del 2008 – benché rinviato a tempo indeterminato – all’Ucraina a entrare nell’Alleanza atlantica. Io penso che uno dei presupposti per arrivare a una fine di questa carneficina sia quello di distinguere tra l’agenda repressiva e imperiale di Putin e i legittimi interessi di sicurezza dello Stato russo. Un anno e mezzo fa ho ipotizzato che fosse possibile – in presenza di una rinuncia all’ingresso nella Nato da parte dell’Ucraina, da controbilanciare con altre garanzie di sicurezza, e a fronte di una autonomia culturale delle parti orientali del Paese – preservare l’integrità territoriale del Paese, forse con l’eccezione della sola Crimea. Ora, a fronte di un deterioramento della situazione militare in Ucraina dall’autunno 2023 in poi – l’offensiva nel Kursk non ha alleggerito la pressione sul fronte orientale dell’Ucraina – temo invece una sorta di compromesso, che porti ad una divisione del Paese.

Ma quali possono essere i presupposti realistici di un negoziato?

Probabilmente una soluzione di questo conflitto necessita di una ripresa contemporanea di negoziati per il controllo degli armamenti tra gli Usa e la Russia, a cui si deve aggiungere la Cina. Mentre l’idea che saremmo dinnanzi ad un nuovo ed inevitabile confronto mondiale tra le potenze dell’”autocrazia” e quelle della “libertà e democrazia” è una sorta di profezia autoavverante: oltretutto si tratterebbe anche di una capitolazione non solo dinnanzi ai rischi impliciti a una nuova guerra fredda, aumentati vieppiù dagli sviluppi tecnologica della difesa, ma anche a fronte della lotta esistenziale contro la distruzione dell’ambiente, a cominciare dal climate change. Io invece ritengo che sia necessario tornare a una concezione condivisa di una sicurezza comune, che arrivi a una impossibilità strutturale di effettuare attacchi su vasta scala.

Professore, la Germania ha alle spalle decenni di Ostpolitik. Anche Angela Merkel ha tentato fino all’ultimo minuto di tenere in piedi il dialogo con Mosca. Ora tutto questo viene pesantemente messo sotto accusa.

Si può discutere di tutto in termini critici, ma è necessario rimanere con i piedi per terra. L’Ostpolitik che ha preso gradualmente forma negli anni Sessanta è culminata nella politica dei trattati del governo Brandt-Scheel (1969-74), rendendo possibile, tra le altre cose, anche il processo di Helsinki, e ha rappresentato uno dei presupposti essenziali per la riunificazione della Germania e l’emancipazione dell’Europa orientale, il tutto sotto l’ombrello della distensione tra le superpotenze dopo la drammatica la crisi dei missili di Cuba nell’ottobre 1962. Se ne può discutere, ma tutto questo è ampiamente riconosciuto. D’altronde, la politica tedesca verso la Russia dopo il 1990 certo pone una serie di problemi, ma essenzialmente è stata costruttiva. E razionale.

Eppure ci sono elementi discutibili nel rapporto con Mosca. Per esempio Nord Stream 2: non era assurdo, come dice qualcuno oggi, lasciare che l’approvvigionamento di gas della Germania dipendesse per il 90 per cento da un solo altro Paese? Un Paese che in Germania ha condotto operazioni di intelligence estremamente aggressive, nonché cyberattacchi come quello contro il Bundestag?

Dunque: la stretta cooperazione economica tra Germania e Russia è stata guidata dagli interessi di entrambe le parti in modo diverso. E certo, la parte giustificata delle critiche riguarda l’alto livello di fornitura di energia dalla Russia. Tuttavia, la cessazione del Nord Stream 2 è stata annunciata dall’allora presidente degli Stati Uniti Joe Biden nel giardino della Casa Bianca il 17 febbraio, mentre il capo del governo della sovrana Repubblica federale rimaneva in silenzio. Certo, è necessario che la Germania si armi al meglio contro le operazioni segrete dall’estero. Tuttavia, anche il nostro Paese ha una grande esperienza di operazioni di spionaggio e di influenza informale da parte di paesi amici come gli Stati Uniti.

Tornando all’Ucraina, molti pensano che il comeback di Trump possa portare alla svolta. Lei come la vede?

Le esternazioni di Trump mostrano che intende arrivare alla fine del conflitto attraverso un “deal”. Allo stesso tempo vorrebbe ridurre l’impegno globale degli Stati Uniti senza rinunciare al suo ruolo di superpotenza. La verità è che l’imprevedibilità del nuovo presidente rende particolarmente difficile ogni previsione. Vedremo.

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