In un nuovo capitolo del suo negazionismo a tutti i costi, Jair Bolsonaro mette il naso stavolta in quanto di più sacro c’è nel suo paese, il calcio. Impone al Brasile un torneo che nessuno vuole, la Coppa America, minaccia di cambiare il commissario tecnico, ottiene il silenzio dai giocatori rosi dai dubbi. Una scommessa per vedere se la Seleção verdeoro – che non vince nulla di importante da tempo – riesce a fargli appuntare sul petto una medaglietta da sventolare in tv, mentre la sua popolarità sta andando a rotoli e ogni volta che parla si scatena l’inferno delle pentole dalle finestre.

Panem et circenses

È una storia vecchia, funziona dai tempi dei Romani, e infilare lo sport nella politica portò bene negli anni Settanta anche agli idoli massimi di Bolsonaro, i generali della dittatura. Ma almeno allora c’era Pelé, e il Brasile poteva vincere anche guidato dal primo che passava.

La vicenda: la Coppa America, torneo per nazionali del continente, è un evento di rara inutilità e scarso appeal economico, e come tale è trattato. Non ha nemmeno una scadenza fissa, le ultime edizioni sono state disputate nel 2011-2015-2016-2019. Si svolge quando capita. Fuori dal Sudamerica i diritti vengono via per poco, e infatti, ma nemmeno sempre, qualche canale tv europeo di seconda fascia trasmette le partite a orari antelucani. È comunque un business per la Conmebol, la Uefa sudamericana, e succede che quest’anno, dopo un investimento di 30 milioni di dollari, si sono tirati indietro come paese ospite prima la Colombia e poi l’Argentina. Il primo per la crisi politica e le continue manifestazioni di piazza, il secondo perché nel cuore di una nuova ondata della pandemia. E cosa fa il governo brasiliano, pur sapendo di rischiare che il traguardo del mezzo milione di morti per Covid-19 cada nel bel mezzo del torneo (sono 475mila, a lunedì)? Accetta, a dieci giorni dal primo calcio di inizio. Bolsonaro si rassicura che le partite si svolgano in quattro città governate da suoi alleati, per non correre rischi. Tre su quattro senza la minima tradizione calcistica, e poi Rio de Janeiro con il suo Maracanã. Non ci sarà pubblico né tifosi al seguito e i giocatori, oltre a fare un tampone ogni due giorni, vivranno blindati. Gli argentini, per esempio, hanno già fatto sapere che verranno in Brasile solo per giocare, arrivando in giornata. Anche se non si potrà andare allo stadio, è tradizione dei brasiliani riunirsi a centinaia nei bar quando ci sono le partite della Seleção, un ottimo sistema per diffondere il virus. Occorre ricordare che la situazione della pandemia non è paragonabile in questi giorni con quella europea, dove si giocherà a partire dal giorno 11 il torneo corrispondente.

Sussulto di buonsenso

Per qualche giorno dopo l’annuncio, è sembrato che il mondo del futebol, in Brasile da sempre sottomesso al potere, potesse avere un qualche sussulto di buonsenso. Si sparge la notizia che il c.t. Tite è fortemente contrario e pronto a guidare la resistenza insieme ai suoi giocatori. Il capitano Casemiro ammette farfugliando in una intervista: «Non possiamo parlare dell’argomento. Ma tutti sanno qual è la nostra posizione, più chiaro di così è impossibile. Ma esiste un rispetto, esistono le gerarchie...» Tecnico e giocatori sarebbero compatti, soprattutto i miliardari che giocano in Europa e non hanno troppa voglia di giocarsi le vacanze, e magari un ginocchio, per piegare la Bolivia. Vanno a parlarne con il presidente della Cbf, la Federcalcio brasiliana, Rogerio Caboclo. L’idea è mugugnare e farlo trapelare, ma senza pronunciare la parola magica: boicottaggio. L’opinione pubblica brasiliana è ampiamente contraria alla Coppa America, in rete si scatenano memes macabri. In Senato, dove sta lavorando una Commissione di inchiesta sulle responsabilità negazioniste del governo nella pandemia, si parla di “pessimo esempio”, alla vigilia di una possibile terza ondata del contagio. E qualcuno propone di aggiungere la vicenda ai numerosi capi di accusa contro Bolsonaro.

Nel mezzo c’è una partita per le qualificazioni ai Mondiali del Qatar come scusa per i giocatori, che si ricacciano nel silenzio. Anche il c.t. tace, ma si becca un video squadrista da uno dei figli di Bolsonaro, il senatore Flavio, che lo definisce ipocrita e «servo di Lula». Circola il nome del possibile successore di Tite. Si tratta di Renato Gaucho, già tecnico del Gremio, noto ai tifosi romanisti con il suo cognome vero, Portaluppi, arrivato nella capitale a fine anni Ottanta, e qui dedito soprattutto a rimpolpare la sua dichiarata collezione di conquiste femminili. Renato è di provata fede bolsonarista, ha dichiarato il suo voto, è una specie di consulente informale del presidente sui temi del calcio. «Per Tite c’è sempre un posto libero nel Cuiabá», lo sfotte il vicepresidente Hamilton Mourão, citando una squadra periferica di serie B. Nel frattempo, la farsa ha anche il suo risvolto piccante. Escono alcune intercettazioni del presidente della Cbf, Caboclo. L’accusa è di stalking morale e sessuale, chiede a una sua dipendente al telefono se può trattarla come un cagnolino e lanciarle croccantini. Viene sospeso cautelativamente, ma già si suppone che non tornerà.

Già visto

Quello di Bolsonaro è un rigurgito da anni Settanta. Gli dev’essere venuto in mente come portò bene alla Seleção e al governo in carica una interferenza simile a questa. Era la vigilia dei Mondiali in Messico, e c.t. del Brasile era Joáo Saldanha. Personaggio unico, Saldanha era stato il più famoso giornalista sportivo brasiliano, feroce critico di tutto quello che la nazionale aveva fatto vedere dal 1962 (anno della sua seconda Rimet) fino a quel momento. Un anno prima del torneo, sfibrata dagli attacchi di Saldanha, la federazione decise di affidargli la squadra. Mise in piedi la potenza offensiva di un gruppo – Jairzinho, Tostão, Rivelino, Gerson – del quale Pelé era ovviamente la perla unica, ma si rifiutò categoricamente di mettere in squadra un tale Dario, pupillo dell’allora presidente del Brasile, il generale Emilio Medici. Saldanha era uomo di temperamento irascibile e poco adatto ai compromessi. Peggio di tutto era comunista, con tanto di tessera del partito, e non faceva nulla per nasconderlo. Alla vigilia della spedizione messicana, venne silurato per ordine di Medici e sulla panchina della Seleção, con la squadra messa in piedi da Saldanha, sedette Mario Zagallo. Il resto è storia del calcio. Umiliando in finale l’Italia di Riva e Boninsegna, il Brasile del 1970 è ancor oggi considerata la nazionale più forte di tutti i tempi. I militari alzarono in cielo la Coppa Rimet e restarono al potere per altri 15 anni. Lo stesso fecero i criminali argentini nel 1978, un Mondiale vinto mettendo sotto silenzio i lamenti dei torturati e dei desaparecidos.

I tempi sono cambiati, ma la tragedia del calcio utilizzato dalle dittature sanguinarie si trasforma ora nella farsa in soccorso al bolsonarismo alle corde. Come già avvenuto con l’Amazzonia e la pandemia, senza grandi risultati, Bolsonaro tenta di dimostrare che può aver ragione contro tutto e tutti.

Anche una cosa piccola come la conquista della Coppa America, in questo momento, potrebbe aiutarlo: l’immagine di Neymar che alza la coppa al suo fianco al Maracanã. Basta anche dimostrare di poter organizzare un torneo complesso in una settimana e riuscirci. Il Brasile ha precedenti: subissato dalle critiche alla vigilia dei Mondiali 2014 e delle Olimpiadi 2016 per ritardi organizzativi, in realtà se la cavò più che bene. Sul presunto e teatrale boicottaggio il sipario è già calato: è deciso, i giocatori ci saranno. Bolsonaro ha anche negato di aver chiesto la testa del tecnico.

A meno di imprevisti colpi di coda della vicenda il Brasile scenderà in campo domenica prossima contro il Venezuela, e con l’aria che tira verrà seguito stancamente da una parte della già leggendaria torcida. Il solo fatto che il bolsonarismo militante abbia usurpato i colori verde-oro per farne il simbolo delle manifestazioni governative è un motivo per restare chiusi in casa.

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