Fresco vincitore alle urne, il nuovo premier canadese martedì presenterà il nuovo gabinetto al parlamento. A convincere quasi la metà dell’elettorato sono stati i suoi due mandati come banchiere centrale, la sua promessa di costruire a più non posso: case e infrastrutture – in primis oleodotti e “corridoi energetici” – per liberare il potenziale economico del paese
Oggi Mark Carney, riconfermato primo ministro canadese alle elezioni del 28 aprile, presenterà il nuovo gabinetto al parlamento. Succederà così a sé stesso, dopo due mesi passati alla guida del governo al posto di Justin Trudeau, con l’obiettivo dichiarato di preparare la sua battaglia per un Canada forte, unito e quanto più possibile affrancato dagli Stati Uniti. Come già accaduto subito dopo le elezioni, molti commentatori inquadreranno Carney e il suo governo come la risposta politica “liberale” a un conservatorismo percepito sempre più simile al trumpismo, quale quello incarnato dal suo rivale elettorale Pierre Poilievre. Senza entrare nel merito dell’effettiva sovrapposizione, alquanto labile, fra gli attuali conservative canadesi e l’ideologia Maga negli Usa, una tale lettura rischia di sottovalutare (forse consapevolmente) l’impatto che la figura di Carney ha avuto sulla scelta fatta dai canadesi. Per essere chiari: ha vinto le elezioni non grazie ma nonostante il partito Liberal, che si era affidato a lui nel tentativo di evitare il tracollo.
Il 20 gennaio, quando Donald Trump si è insediato alla Casa Bianca, i Liberal, sempre più invisi all’elettorato dopo dieci anni di governi Trudeau, erano sotto di 25 punti nei sondaggi rispetto ai conservatori di Poilievre. Se la sera del 28 aprile si sono trovati con tre punti di vantaggio nel voto popolare, lo si deve quasi esclusivamente al fatto che a guidarli c’era un uomo che di politico ha ben poco. La credibilità che molti canadesi gli hanno accordato quale miglior antidoto alle minacciose iniziative di Trump deriva dal suo essere un tecnocrate, pragmatico e con un’agenda imperniata sul "Build, baby, build” – peraltro retoricamente simile al trumpiano “Drill, baby, drill”.
A convincere quasi la metà dell’elettorato sono stati i suoi due mandati come banchiere centrale: prima del Canada (peraltro nominato dal conservatore Steven Harper) durante la crisi finanziaria del 2008, e poi del Regno Unito, durante il turbolento periodo della Brexit. Ma ha giocato un ruolo anche il suo approccio post-ideologico alle questioni, lontanissimo dalle fantasie del tipo «il budget tornerà in pareggio da solo» del suo predecessore Trudeau. Così come la sua promessa di costruire a più non posso: case, perché quelle che ci sono ormai sono sempre più fuori della portata del canadese medio, e infrastrutture – in primis oleodotti e “corridoi energetici” – per liberare il potenziale economico del paese e allontanarsi da un’integrazione economica con gli Usa diventata ormai pericolosa per la stessa autonomia del Canada.
È in nome di queste credenziali – eminentemente non politiche, quantomeno nel senso classico del termine – che i canadesi hanno accettato di soprassedere ad aspetti che gettavano più di qualche ombra sulla figura di Carney. Come l’aver fatto parte dell’entourage dei consiglieri economici dell’ultimo governo Trudeau, anche se probabilmente da membro poco ascoltato dato il protagonismo ideologico del predecessore; o l’essere stato nel board di una società d’investimenti, la Brookfield Asset Management, che per mission dovrebbe puntare sulle energie rinnovabili ma che non ha lesinato investimenti in iniziative di sviluppo di combustibili fossili, e la cui sede fu spostata da Toronto a New York proprio quando lui era presidente (non il miglior biglietto da visita per chi si propone come il paladino del Canada contro gli Usa). O da ultimo, il fatto che, pur avendo trasferito le sue cospicue attività finanziarie in un blind trust quando è stato nominato premier, non ne abbia mai resa pubblica l’entità, nonostante le richieste di oppositori politici e commentatori.
In altre parole, quella degli elettori è stata una scelta volta a privilegiare concretezza e pragmatismo rispetto agli slanci ideali. Il che non significa che i canadesi abbiano rinunciato a una visione politica della società, ma in questo momento è, come si suol dire, primum vivere. In questo senso, bisognerebbe essere assai cauti nell’inquadrare l’avvento di Carney nell’ambito di una risposta politica al trumpismo; soprattutto in un paese, l’Italia, che un suo Carney – anche lui un ex Goldman Sachs – lo ha già avuto e, teoricamente, potrebbe riaverlo: Mario Draghi. Il quale però, se si presentasse alle elezioni, non prenderebbe mai il 43 per cento dei voti.
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