Milioni di “turisti rossi” in pellegrinaggio alle grotte di Yan’an dove Mao e compagni, sopravvissuti alla Lunga marcia, nel 1935 organizzarono la loro base rivoluzionaria; il nuovo coronavirus e la povertà assoluta dichiarati solennemente “sconfitti”; tre cosmonauti spediti nello spazio a bordo della navicella Shenzhou-12.

A cento anni dalla sua nascita, il Partito comunista cinese celebra se stesso come emblema della continuità tra lo spirito di sacrificio delle origini, l’apparato che ha permesso al Paese di superare crisi altrove rivelatesi devastanti, e la spinta a conquistare l’indipendenza tecnologica dall’Occidente.

Dal 1° luglio 1921 – dalla fondazione, in una scuola femminile della Concessione francese di Shanghai, chiusa per le vacanze estive – a oggi, la storia ha riconosciuto a quello che i cinesi chiamano gòng chăn dăng meriti innegabili: l’unificazione di una nazione divisa e saccheggiata dal colonialismo durante il Secolo dell’umiliazione (1839-1949), la cancellazione della miseria e dell’analfabetismo, decenni di crescita economica ininterrotta.

Un “miracolo” in realtà frutto di una certa discontinuità politica e strategica. Mao, come ricorda Marie-Claire Bergère (“La Cina dal 1949 ai giorni nostri”), «volgendo le spalle al mare, ripiegando sulle proprie sue basi continentali, appoggiandosi al potente vicino sovietico» scongiurò «le minacce di un accerchiamento internazionale». Trent’anni più tardi Deng Xiaoping e, a seguire, le segreterie di Jiang Zemin (1989-2002) e Hu Jintao (2002-2012), aprirono il Paese al mondo e al capitale internazionale.

La svolta di Deng

Gli investimenti esteri diretti (Ide) passarono da una media di 2 miliardi di dollari all’anno nel decennio precedente, a 37 miliardi di dollari all’anno nel periodo 1992-2001 e, dopo l’ingresso nell’Organizzazione mondiale del commercio nel 2001, a oltre 100 miliardi di dollari nel 2010.

Secondo l’economista Arthur R. Kroeber (“China’s Economy: What Everyone Needs to Know”), la trasformazione della Cina nella “fabbrica del mondo” comportò la cessione di sovranità economica, attraverso la svendita della manodopera e del suolo nazionale al capitale straniero (con conseguente catastrofe ecologica, nda), ma fu dettata dalla necessità: muovendo dall’arretratezza post Rivoluzione culturale, lo sviluppismo del Pcc denghiano esigeva accesso immediato alla tecnologia straniera. L’economia cinese cambiò volto: «dalla dipendenza dall’industria pesante - con impieghi a vita garantiti e un welfare generoso per i lavoratori urbani – a quella dagli investimenti privati stranieri e dall’uso massiccio di lavoratori migranti nelle industrie leggere, dove i salari e la tutela del lavoro vengono duramente repressi».

Come stupirsi se, malgrado quello che il Partito definisce ufficialmente “l’incidente del 4 giugno” - ovvero il massacro di centinaia di civili nella repressione del movimento di Tiananmen - dopo un breve periodo di gelo con l’Occidente e il rilancio delle riforme con il Viaggio al sud di Deng del 1992, il “socialismo cinese” sembrava definitivamente sdoganato? La strategia del Partito per attrarre investimenti e tecnologia coincideva con le esigenze della fase più rapace della globalizzazione.

Prima del 4 giugno 1989 – quando il segretario generale, il liberale Zhao Ziyang, fu rimosso e arrestato, il conservatore Li Peng proclamò la legge marziale, e l’Esercito che aveva liberato il Paese dagli stranieri sparò sui cinesi che manifestavano nel cuore politico della capitale - c’era stata un’altra spaccatura, forse ancora più drammatica: alla metà degli anni Sessanta il Partito, dopo il disastro del Grande balzo in avanti, aveva messo in minoranza Mao, e il Grande timoniere per tutta risposta (il 5 agosto 1966) aveva affisso il poster (dàzìbào) che invitava le guardie rosse a fare “Fuoco sul quartier generale!”, cioè attaccare i suoi avversari politici.

Struttura leninista

Morto Mao nel 1976, messa agli arresti la Banda dei quattro guidata dalla sua quarta e ultima moglie, l’attrice Jiang Qing, le redini furono assunte da Deng, passato alla storia per le riforme economiche, ma che fu anche il saggio architetto di quel sistema di successione della leadership, di regole sulla progressione delle carriere dei funzionari e di limiti alla durata dei rispettivi mandati che avrebbero assicurato a lungo stabilità al Partito dopo il caos della Rivoluzione culturale e di Tiananmen.

Assecondando le spinte degli imprenditori, con sperimentazioni locali eventualmente estese al resto del Paese, imposizioni traumatiche come quella del figlio unico, le politiche economiche del Partito degli ultimi 40 anni hanno avvicinato la Cina al traguardo della modernizzazione, quello per cui – dalla seconda metà dell’Ottocento – si sono battute generazioni di politici e intellettuali cinesi, tra cui i comunisti.

Oggi, mentre le élite dell’Occidente assistono sgomente all’ascesa della Cina, divise tra l’azzardo di un nuovo containment e la necessità di mantenere legami con i suoi mercati, è più che mai urgente capire che cosa è e cosa vuole il Partito comunista cinese, questo “residuo del passato” che si sta rivelando un’efficiente macchina di governo del XXI secolo.

La sua struttura è quella dei partiti della Terza internazionale sotto l’ombrello della quale (nello stesso anno del Pci) fu fondato il Pcc. Semplificando:il Congresso quinquennale, il Comitato centrale con un paio di sessioni plenarie annuali, l’Ufficio politico (25 membri) e il suo Comitato permanente (7 componenti) presieduti dal segretario generale, la rete di funzionari che dal vertice alla base penetra ogni struttura dello stato, della società, dell’economia e di un esercito rigidamente controllato dalla politica.

«Libertà di discussione, unità d’azione», prescriveva Lenin. E, in effetti, il Partito discute, nei suoi organismi apicali, allargati regolarmente per la consultazione di esperti ed accademici, nell’ambito dei think tank affiliati, nelle sue varie articolazioni.

Ma il Partito è un mondo chiuso passato da 5 milioni di iscritti nel 1950 ai 92 milioni attuali (senza considerare i circa 90 milioni di membri della Lega della gioventù, che ufficialmente non sono membri del Partito). I membri del Partito sposano solo membri del Partito; non si parla del Partito con non membri del Partito; non si discute del Partito se non nelle sedi di Partito… e così via.

Il centralismo democratico stabilisce che gli organismi inferiori devono attenersi alle decisioni di quelli superiori, una prassi giudicata «non democratica» in Occidente, che Xi Jinping ha spinto alle estreme conseguenze, attraverso una concentrazione di potere senza precedenti in vecchi e nuovi organismi del Partito, tutti direttamente o indirettamente controllate dall’uomo che è stato definito “il presidente di tutto”.

Anti-corruzione permanente

La popolarissima campagna anti-corruzione (ad oggi sono stati indagati milioni di funzionari) portata avanti dalla Commissione centrale di vigilanza del Partito è diventata permanente e ha creato una situazione inedita, con l’eliminazione politica degli avversari di Xi e delle fazioni interne che si spartivano incarichi e potere. Ora il Pcc si vanta di parlare con una voce sola: quella del suo segretario generale.

Questa svolta autoritaria è stata giustificata dalla necessità di governare al ritmo di internet le tensioni di una società, un’economia e relazioni internazionali sempre più complesse, alle quali la leadership vuole rispondere in maniera rapida e unanime.

Xi Jinping è convinto che la Cina trainerà la crescita globale nei prossimi decenni e che ciò basterà per mettere a tacere le critiche internazionali, i ribelli di Hong Kong, i separatisti uiguri e l’indipendentismo taiwanese.

Ma lo stress test a cui il figlio del rivoluzionario Xi Zhongxun lo ha sottoposto non può non aver suscitato malumori all’interno di un Partito abituato a discutere e di un Comitato permanente dell’Ufficio politico all’interno del quale il segretario generale (fatta eccezione per Mao) era sempre stato più un primus inter pares che un dominatore assoluto. E potrebbe aver creato anche un pericoloso vulnus, perché l’abolizione nel 2018 del limite dei due mandati per la presidenza e la vice presidenza della repubblica e la mancata presentazione – come da consuetudine – di un “erede designato” tra il primo e il secondo mandato di Xi (che scadrà l’anno prossimo) ha sconfessato i meccanismi di successione predisposti da Deng e potrebbe aprire la strada a un conflitto tra aspiranti al dopo-Xi.

Come che sia, finora il Partito comunista cinese ha spiazzato tutti: sinologi che hanno provato a interpretare con categorie storico-filosofiche dell’antichità un sistema politico contemporaneo che ha dimostrato di sapersi rinnovare, politologi alla disperata ricerca di devastanti “contraddizioni” in un Paese dove non vige il principio aristotelico di non contraddizione. Da decenni la “Collapsing China school” (Gordon Chang, David Shambaugh, Minxin Pei, tra gli altri) prevede che le politiche del Partito faranno crollare il regime. E invece sembra prendere forma una realtà diversa, per alcuni sconvolgente: un enorme partito leninista governa in maniera relativamente efficace il paese più popoloso del mondo che, già nel 2028, potrebbe superare l’economia statunitense.

Il comunismo può attendere

Il pil procapite dei cinesi ha appenasuperatoi 10 mila dollari. Ora Xi promette una nazione socialista moderna entro il 2049, mentre il «più alto ideale e l’obiettivo finale del Partito» che, come indica il suo statuto, «è la realizzazione del comunismo», appare sempre più remoto, in un Paese dove si moltiplicano le differenze sociali, i bisogni, gli stili di vita.

Non a caso Xi Jinping, quando si rivolge alle masse,molto più che Marx ed Engels propone «una vita migliore», un traguardo interclassista più adatto a scaldare i cuori sia dei 600 milioni di cinesi che guadagnano circa 150 euro al mese, sia dei 400 milioni che sono già diventati middle class e ora pretendono un ambiente sano e un welfare da paese avanzato.

A rimandare sine die l’avvento di una società senza classi ci aveva già pensato, nel lontano 1987, Zhao Ziyang, con la sua teoria dello “stadio primario del socialismo”: per completare la trasformazione socialista dei mezzi di produzione ci vorranno almeno cento anni.

Da quel momento, tutte le teorie dei leader successivi - le “tre rappresentanze”, con la quale Jiang Zemin aprì le porte del Partito ai capitalisti, il “socialismo scientifico” con cui Hu Jintao sottolineò l’esigenza di ridurre le disuguaglianze, nonché il “socialismo con caratteristiche cinesi per una Nuova era” di Xi - hanno rappresentato, essenzialmente, dei tentativi di “giustificare”, nell’astruso linguaggio del socialismo che Mao iniziò a “sinizzare” già a Yan’an, la distanza tra la società data e l’utopia del comunismo.

L’ideologia conta

Distinta da questa ideologia formale - con la quale il Partito parla ai suoi iscritti e che ogni segretario generale modifica, per adattare il marxismo alla nuova realtà della Cina ed elevare il suo status teoretico e politico -, c’è quella informale, indirizzata al popolo.

All’indomani del massacro di Tiananmen, Deng sostenne che «durante gli ultimi dieci anni, l’errore più grosso lo abbiamo compiuto nel campo dell’educazione, anzitutto quella ideologica e politica, non soltanto degli studenti ma del popolo in generale». Memore di questa lezione, Xi ha messo in atto un piano per conquistare le menti dei cinesi che, per intensità e risorse mobilitate, non ha precedenti nelle amministrazioni post-Mao. Il Partito del Grande timoniere controllava pochi canali, unidirezionali: radio e giornali ufficiali. Oggi in Cina ci sono 584 case editrici, 1.894 editori di giornali, 10.084 di riviste e 2.578 tra televisioni e radio e, soprattutto, 1 miliardo di utenti perennemente connessi a internet con gli smartphone.

Il Partito esercita il suo controllo su tutti i media attraverso leggi e regolamenti; la supervisione dei contenuti; l’autocensura dei giornalisti; il monitoraggio tecnologico e la censura in tempo reale delle informazioni. Negli striscioni rossi appesi per strada, nella martellante propaganda culturale, attraverso il web, riecheggia l’imperativo maoista secondo cui «la leadership del controllo del pensiero costituisce la priorità assoluta per mantenere la leadership complessiva».

Repressione e cooptazione

La pandemia ci ha mostrato quanto l’utilizzo dei big data da parte dei governi possa rivelarsi vantaggioso per la popolazione: in Cina il tracciamento dei contatti dei positivi e i permessi per gli spostamenti rilasciati sulle app hanno contribuito in maniera decisiva a contenere la diffusione del virus. La Cina è da anni leader nei sistemi di pagamento elettronico. L’intelligenza artificiale viene usata massicciamente per affrontare le emergenze, coordinare il sistema dei trasporti, nei tribunali.

Tuttavia è indubbio che la possibilità che il Partito possa video-sorvegliare e controllare- attraverso il sistema di credito sociale-il comportamento di 1,4 miliardi di persone, apre scenari inquietanti, per i quali si sono sprecate le definizioni: orwelliani, distopici, Partito-panopticon.

In Occidente siamo abituati a cogliere soprattutto gli evidenti meccanismi coercitivo-repressivi del sistema autoritario governato dal Pcc: l’applicazione massiccia della condanna a morte (sulla cui entità vige il segreto di stato), gli arresti dei dissidenti, il controllo totale su e la censura di internet.

Così facendo però si oscura la capacità di cooptazione da parte del Partito di ampi e diversi settori della società, che ha reso la Repubblica popolare cinese il regime socialista più longevo della storia.

Il Partito di intellettuali e quadri dell’esercito (quasi tutti di provenienza rurale) che fece la rivoluzione ha cambiato più volte pelle: Partito dei contadini con la riforma agraria del 1951, poi ha inglobato anche gli operai, in seguito perfino i capitalisti, e, infine, la classe media e il popolo più in generale, che Xi ha sedotto promettendo «una vita migliore» e una Cina che riprenda il posto che le spetta al centro del mondo.

L’ultima espressione di questa straordinaria capacità di cooptazione oggi è riscontrabile tra i giovani, sensibili al richiamo di un pot-pourri ideologico fatto di marxismo sinizzato, elementi di confucianesimo, e patriottismo, adatto a mantenere il consenso in una Cina che potrebbe diventare sempre meno aperta al mondo e sempre più in conflitto con l’Occidente.

Fa un certo effetto in una Cina per tanti aspetti ultramoderna vedere sempre più spesso gruppi di giovani a zonzo in abiti tradizionali, o le fermate dei bus tappezzate di idilli confuciani. Eppure proprio quel confucianesimo accanitamente combattuto da Mao è entrato nell’ideologia informale del Pcc. Anche il discorso nazionalistico (“Le democrazie liberali, dove regna il caos, vogliono impedire l’ascesa della Cina”) è parte integrante di questa ideologia popolare diffusa a media unificati.

L’ideologia e il controllo sociale si stanno dimostrando formidabili strumenti di “mantenimento della stabilità sociale” (wéi wĕn) in una fase che la leadership di Pechino ritiene caratterizzata da problemi sempre più complessi all’interno e da una crescente ostilità internazionale.

Resta poco spazio per l’altra domanda che ci eravamo posti: cosa vuole oggi il Partito comunista cinese. Possiamo cavarcela con poche righe, lasciando la questione in sospeso. Le ipotesi sono, essenzialmente, due. C’è chi – come gli esperti di Cina dell’amministrazione Biden – ritiene che il Partito di Xi Jinping serva gli interessi di un regime aggressivo, che persegue non solo politiche repressive in patria, ma che vuole costruire un’egemonia all’estero. E chi invece – pur criticando l’autoritarismo e la svolta securitaria all’interno – pensa che il Partito fondato da Mao sia ancora alla ricerca di una governance efficiente per una nazione-continente complessa come la Cina e di restituirle il ruolo che ritiene le spetti nel mondo.

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