A ospitare il primo vertice tra la Cina e le cinque repubbliche dell’Asia centrale sarà Xi’an, la città da cui nel 138 a.C. il leggendario inviato dell’imperatore Wu, Zhang Qian, partì per stabilire relazioni diplomatiche e commerciali con quelli che allora erano i “territori occidentali”, governati da tribù nomadi. Nella porta orientale dell’antica via della Seta, capitale di dieci dinastie, Xi Jinping riceverà oggi e domani i capi di stato di Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kirghizistan e Tagikistan per un summit che fotografa il cambiamento dei rapporti di forza in questa regione al centro della nuova Belt and Road Initiative (Bri) lanciata dieci anni fa dal presidente cinese.

Mentre nel fine settimana a Hiroshima il G7 faticherà a trovare un accordo su misure contro la “coercizione” economica cinese invocate dagli Stati Uniti, a Xi’an sarà inaugurata ufficialmente una “nuova era di cooperazione” tra la Cina e un’Asia centrale nella quale diminuisce la (pur sempre forte) autorità russa, e il peso degli Usa è ormai limitato all’assistenza finanziaria.

I cinque paesi ex sovietici, rimasti nella sfera d’influenza di Mosca dopo il crollo dell’Urss, temono che, prima o poi, potrebbero essere costretti a fare i conti con l’imperialismo di Vladimir Putin. Non a caso nessuno di loro - a differenza della Bielorussia e di un manipolo di altri stati - ha appoggiato l’invasione dell’Ucraina. Nonostante Mosca nel gennaio 2022 abbia inviato i paracadutisti in Kazakistan, salvando dall’assalto dei rivoltosi il governo di Jomrat Tokayev. E a Xi’an i leader delle cinque repubbliche presidenziali ufficializzeranno il loro sostegno al tentativo di mediazione basato sul piano cinese per una “soluzione politica della crisi ucraina”, mal digerito da Mosca.

Non solo, Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kirghizistan e Tagikistan hanno visto l’economia del loro ex protettore indebolirsi per effetto delle sanzioni internazionali. In un quadro così modificato è naturale che guardino meno a Mosca e di più a Pechino.

Inoltre, con il ritiro dalle truppe dall’Afghanistan nell’estate 2021, si è ridotto l’ascendente di Washington sulla regione, dove è aumentata la preoccupazione da parte dei cinque -stan, condivisa da Pechino, per uno spillover islamista dal paese tornato nelle mani dei talebani.

La via della Seta

Sull’Asia centrale la Cina ha ha scommesso dal lontano 2013, quando dalla capitale kazaka Nur-Sultan Xi Jinping annunciò la nascita della Bri, la nuova via della Seta.

Pechino sta rafforzando le relazioni con i cinque paesi dell’Asia centrale anzitutto perché essi rappresentano indispensabili partner di sicurezza. Il Tagikistan, il Turkmenistan e l’Uzbekistan hanno frontiere in comune con l’Afghanistan, che a sua volta confina con il Xinjiang popolato dalla minoranza musulmana degli uiguri. Al centro dell’agenda di oggi e domani, la cooperazione nella stabilizzazione dell’Afghanistan è fondamentale per la Cina per tenere a bada il separatismo nella sua regione nord-occidentale.

Per Pechino l’area (dalla quale arriva il 30 per cento del suo gas attraverso gasdotto) è strategica anche per le sue risorse energetiche, che hanno un potenziale enorme, ma che sono poco sfruttate, a causa della scarsa capacità produttiva locale. Ne sa qualcosa Eni, con una presenza importante in Kazakistan e Turkmenistan e progetti in Uzbekistan, che dovrà guardarsi sempre di più dalla concorrenza dei colossi di stato cinesi.

Negli ultimi anni la Cina ha costruito un oleodotto di 2.200 km che porta il petrolio dal Kazakistan al Xinjiang e, nel 2009, ha lanciato il gasdotto Asia centrale-Cina che la collega a Turkmenistan, Uzbekistan e Kazakistan. Nel settembre scorso, Pechino ha annunciato l’avvio dei lavori per un quarto gasdotto tra il Xinjiang e il Turkmenistan attraverso il Kirghizistan e l’Uzbekistan.

La cooperazione energetica e di sicurezza è funzionale a rafforzare i governi di questi paesi, esposti a rivolte come quella dell’anno scorso in Kazakistan, repressa con un numero imprecisato di morti (ufficialmente 16) e centinaia di feriti. Il direttore dell’Istituto di studi internazionali dell’Accademia di scienze sociali di Shanghai, Wang Jian, ha spiegato che Pechino vuole evitare che «il rapido aumento dei costi dei generi alimentari e dei prezzi dell’energia e dei minerali a causa dell’inflazione globale si ripercuota sulla stabilità interna della regione, rischiando di innescare rivoluzioni colorate».

Usa e G7 inseguono

Uniti con la Cina nella lotta al nemico comune della democrazia liberale, i governi dell’Asia centrale sono tra quelli che più hanno sostenuto la Bri. Da allora il loro commercio bilaterale con la Cina è in costante aumento, e l’anno scorso ha toccato i 70 miliardi di dollari (+40 per cento rispetto al 2021).

A settembre, durante il vertice della Shanghai cooperation organization, Xi ha annunciato che la Cina avrebbe fornito 150 milioni di yuan (24,37 milioni di dollari) in aiuti umanitari ai membri della “Nato dell’est” (di cui fanno parte i cinque -stan), e le compagnie di stato cinesi hanno avviato tanti progetti infrastrutturali molto rilevanti, come la nuova ferrovia che collegherà la Cina al Kirghizistan e all’Uzbekistan. L’offerta di Pechino è irrinunciabile: la connettività della nuova via della Seta, che promette di sviluppare le economie dei cinque vicini, e il mercato cinese, pronto ad accogliere le loro esportazioni di materie prime.

A febbraio il segretario di stato, Antony Blinken, ha annunciato 20 milioni di dollari di aiuti economici per la regione, oltre ai 25 milioni di dollari offerti l’anno scorso, e altri 5 milioni di dollari per un programma economico ed energetico per potenziare la connettività regionale. Gli Stati Uniti e il G7 rincorrono. Negli ultimi mesi hanno rinnovato le loro promesse di assistenza finanziaria all’Asia centrale, che però - nel nuovo mondo multipolare – vuole continuare a guardare a Mosca, senza disdegnare il sostegno occidentale, ma avvicinandosi di più alla Cina.

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