La Cina diventerà vecchia prima che “ricca e forte” (fù qiáng) come vorrebbe quella “rinascita nazionale” (zhōnoghuá mínzú de wĕidà fùxīng) che rappresenta il principale collante sociale e ideologico della Nuova era proclamata da Xi Jinping?

L’attesissimo VII censimento nazionale della Repubblica popolare cinese, con la sua enorme mole di informazioni su età, sesso, istruzione, occupazione, reddito della popolazione (raccolte porta a porta da sette milioni di funzionari nel novembre-dicembre 2020), fornirà importanti indicazioni sulle scelte che sarà obbligata a compiere la leadership di un paese sull’orlo di una crisi demografica. È anche il tallone d’Achille del Partito comunista che si appresta a celebrare il centenario della sua fondazione (23 luglio 1921).

Prevista per l’inizio del mese scorso, la pubblicazione dei risultati preliminari del censimento decennale tarda ad arrivare, dopo che il Financial Times ha rivelato la prima contrazione della popolazione cinese dalla carestia seguita al Grande balzo in avanti, quando i cinesi diminuirono di 10 milioni nel 1960 e di ulteriori 3,4 milioni nel 1961. L’anno successivo ripartì una crescita che, per effetto del miglioramento delle condizioni di vita grazie alla politica di riforma e apertura, non si è fermata fino al computo ufficiale del 2010: 1,37 miliardi. L’Ufficio nazionale di statistica (Nbs) giovedì scorso ha smentito il quotidiano britannico con una sola riga: «La popolazione della nostra nazione continua a crescere».

Le cause di un declino

Al di là del dato numerico complessivo, la tendenza demografica della Repubblica popolare cinese è chiara, corroborata dai dati ministeriali degli ultimi dieci anni.

Il tasso di fertilità (il numero medio di figli per donna) della Cina è attualmente 1,6, lontano dal livello di sostituzione (il numero medio di figli necessario a mantenere stabile la popolazione) di 2,1. Sono sempre di meno le coppie che si sposano, in un paese in questo rigidamente tradizionalista, dove la procreazione o è all’interno del matrimonio o non è. Secondo il ministero degli Affari civili, l’anno scorso le nozze sono diminuite per il settimo anno consecutivo: solo 8,13 milioni (meno 13 per cento rispetto al 2019 e meno 40 per cento rispetto al picco del 2013). Sociologi ed economisti attribuiscono questa débâcle soprattutto alle disuguaglianze sociali. Nel 2020 i lavoratori potevano contare su un reddito medio pari a 5mila dollari, ma un matrimonio costa tra 77mila e 93mila dollari per i tre must: appartamento, automobile e dote.

E chi si sposa fa sempre meno figli (11,79 milioni nel 2019, 10,035 milioni nel 2020).

La pandemia ha accelerato queste tendenze. Il calo dei matrimoni registrato l’anno scorso è stato il più brusco dal 1982 (meno 20 per cento), e i prestiti agevolati per sostenere l’economia hanno fatto salire il costo della vita. Mentre persistono gli effetti dello squilibrio maschi-femmine retaggio della politica del figlio unico: 114,61 ogni 100 nella fascia di età 20-24, e 106,65 ogni 100 in quella 25-29.

Tra i fattori che spingono verso il basso le nascite vanno annoverati anche la continua urbanizzazione (in città si fanno meno figli che tra le comunità rurali), nonché, in misura minore, la crescente apertura nei confronti delle comunità Lgbt, che vivono più serenamente al di fuori dei ménage tradizionali, senza sentirsi costrette a procreare. Xu Jia, demografo dell’Università di Jilin, ha ricordato il detto secondo cui “Lo sviluppo è il miglior contraccettivo”. E la Cina continua a svilupparsi rapidamente».

Gli effetti sulla forza lavoro

Negli ultimi giorni è scesa in campo la Banca centrale (la Pboc), con un policy paper nel quale ha avvertito che «la liberalizzazione delle nascite deve avvenire ora che ci sono ancora cittadini (benestanti, nda) che vorrebbero avere più figli, ma non possono. Sarebbe inutile liberalizzare nel momento in cui nessuno più volesse avere figli».

Il documento della Pboc invita il governo a «risolvere i problemi che le donne incontrano durante la gravidanza, il parto, e le iscrizioni nei nidi e nelle scuole».

Il numero di cinesi in età lavorativa (15-64 anni) ha raggiunto il picco (925 milioni di unità) nel 2011, e nel 2012 (l’anno in cui Xi è stato eletto segretario generale del partito comunista cinese) ha iniziato il suo inesorabile declino. Alla fine del 2019 era attestato al 64 per cento, al di sotto del livello registrato nel 2000 (66 per cento). Il cosiddetto “dividendo demografico” che nel corso degli anni Ottanta, Novanta e nel primo decennio del Duemila aveva assicurato un continuo ricambio di forza lavoro, sta venendo meno, per effetto del combinato disposto della diminuzione delle nascite e dell’aumento dell’aspettativa di vita (che entro il 2025 dovrebbe salire da 77 a 78 anni). Gli ultra sessantenni sono passati dal tre per cento al 13 per cento nel decennio 2000-2010 e hanno raggiunto il 19 per cento nel 2020).

Tutto ciò ha un effetto sui salari, in continuo aumento, e sulla sostenibilità della previdenza: il governo prevede di aumentare di qualche mese ogni anno l’età pensionabile (attualmente 60 per gli uomini, 55 per le donne e 50 per le operaie), una misura considerata dai cinesi unanimemente impopolare.

Secondo i ricercatori della Pboc, resterebbe poco più di un decennio prima che i cinesi inattivi diventino la maggioranza. Il rapporto continua ipotizzando che tra il 2019 e il 2050 la Repubblica popolare cinese perderà 32 milioni di abitanti, mentre gli Stati Uniti ne guadagneranno 50 milioni. Alla metà del secolo, la percentuale della popolazione in età lavorativa che nel 2019 in Cina era superiore del 5,4 per cento rispetto agli Stati Uniti, sarà inferiore dell’1,3 per cento mentre il numero di anziani, che era inferiore del 7 per cento, diventerà superiore del 7 per cento. Paesi come gli Stati Uniti e il Giappone sono dovuti ricorrere al lavoro sottopagato nei paesi dove hanno esportato le loro multinazionali e all’importazione di lavoratori altamente qualificati. «Se esitiamo ancora un poco a liberalizzare le nascite – conclude il paper –, non faremo più in tempo a utilizzare la politica delle nascite per rispondere alla transizione demografica e ripeteremo gli stessi errori dei paesi sviluppati».

Una Zona di libero parto

La politica del secondo figlio – che ha sostituito quella del figlio unico introdotta nel 1978 da Deng Xiaoping – è in vigore dal 2016. Sono in tanti a ritenere che Pechino si sia mossa fuori tempo massimo per varare una riforma che, finora, non ha avuto alcun effetto di rilievo.

Rispondendo a una proposta di Chen Xiangqun – il vice governatore del Liaoning che aveva suggerito di cancellare completamente i limiti alle nascite – il 18 febbraio scorso il ministero della Sanità si era dichiarato favorevole alla creazione nelle tre province del nord-est (Heilongjiang, Liaoning, Jilin) di un’area pilota dove consentire alle coppie di fare figli a piacimento. Il ministero è dovuto tornare sui suoi passi per l’enorme clamore suscitato dalla presa di posizione, ma oramai il sasso nello stagno era stato lanciato, dopo la Pboc, anche dal dicastero responsabile delle politiche di pianificazione familiare. Presto potrebbero dunque essere annunciate nuove politiche per rimuovere anche il limite dei due figli. Ma serviranno?

Rifacendosi alle esperienze di Giappone, Corea del sud e Singapore (con tassi di fertilità simili alla Cina), Xu Jian ha ricordato sul giornale shanghaiese Sixth Tone che negli ultimi decenni nessun paese in declino demografico, nonostante le politiche di incentivazione delle nascite, è riuscito a invertire la rotta. Il demografo dell’Università di Jilin ha invitato a non demonizzare l’invecchiamento della popolazione, rispondendo con gli investimenti: per la costruzione di case di riposo pubbliche, per la centralizzazione della cura degli anziani, per l’automazione industriale per aumentare la produttività. Dobbiamo prima di tutto prepararci mentalmente «a sostenerci quando saremo vecchi» ha concluso Xu con una nota di ottimismo controcorrente.

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