Per milioni di studenti cinesi quella appena trascorsa è stata la settimana tradizionalmente dedicata alla ricerca del primo impiego. Nei campus gli stand di chi il lavoro lo offre sono stati affollati da oltre 9 milioni di giovani che si laureeranno quest’estate – il numero più alto di sempre (350mila in più rispetto al 2020) –, che si affacciano sul mercato in una fase che è stata definita la più difficile per l’occupazione nella storia della Repubblica popolare cinese. A essere presi d’assalto, più di quelli delle compagnie private – incluse le multinazionali straniere – sono stati gli info point della pubblica amministrazione, del governo e dell’esercito. Un tutor della China University of Mining and Technology di Pechino ha spiegato che «il cambiamento è evidente: le aziende private hanno ridotto le assunzioni a causa della pandemia, mentre i governi (centrale e locali, nda) stanno garantendo sempre più posti a chi esce dall’università».

Al contrario, secondo un documento della società di recruiting Zhilian Zhaopin, nel primo trimestre di quest’anno le joint venture e le società estere hanno ridotto l’offerta di lavoro rispettivamente del 23 e del 38 per cento.

Nel 2020 l’economia cinese è diventata la principale ricettrice di investimenti esteri diretti (163 miliardi di dollari, contro i 140 miliardi dell’anno precedente). Eppure i licenziamenti degli ultimi mesi nel settore privato e il giro di vite del governo contro i monopoli hi-tech stanno orientando le nuove generazioni verso sbocchi professionali più stabili. Al prossimo concorso per l’amministrazione centrale si sono iscritti in 1,5 milioni (110mila in più rispetto al 2020) per 25.700 posti nei ministeri e negli enti statali (uno ogni 61 concorrenti). Nel 2003, alla stessa selezione – erede di quella per il mandarinato che garantì alla Cina imperiale stabilità e mobilità sociale per duemila anni – parteciparono soltanto 125mila persone. Quest’anno, se si considerano anche i governi locali, gli aspiranti sono oltre 9 milioni.

Così, proliferano i business che promettono di favorire l’incontro tra domanda e offerta. È grazie alla sua Offcn Education Technology – una società che si occupa di preparare gli aspiranti al posto pubblico – che Li Yongxin è diventato il cinese più ricco nel settore educazione, con un patrimonio pari a 13 miliardi di dollari.

Incubo karoshi

Questa impetuosa domanda è alimentata anche da giovani provenienti da famiglie benestanti per i quali il “996” che negli anni Duemila aveva alimentato il sogno dei baby boomer (in ufficio dalle 9 del mattino alle 9 di sera, per 6 giorni alla settimana, e con quante più ore di straordinario possibile, per rimpinguare lo stipendio) oggi equivale a un incubo da karoshi. E alla base della rinnovata popolarità del posto pubblico c’è senz’altro un calcolo economico (la media delle retribuzioni – l’equivalente all’incirca di 2mila euro – è il doppio di quella del settore privato al netto di bonus e straordinari).

Ma il boom di richieste segnala anche che il pendolo stato-mercato, che da Deng Xiaoping in poi ha misurato gli schieramenti all’interno del Partito, nella Nuova èra di Xi Jinping oscilla decisamente dal lato della burocrazia. E – ha spiegato al quotidiano hongkonghese South China Morning Post Li Dongjie, titolare nella metropoli di Shenzhen di un’agenzia di corsi di formazione – rispetto alle generazioni precedenti, oggi i giovani cinesi sono più patriottici e sensibili al discorso del Partito comunista.

Parallelamente, sembra sgretolarsi l’attrattiva dell’occidente, per effetto del combinato disposto guerra commerciale-pandemia. La trade war e il coronavirus – con, da un lato, l’efficace contenimento dell’epidemia approntato dalle autorità di Pechino, e, dall’altro gli innumerevoli, gravi episodi di sinofobia che ha suscitato, soprattutto in occidente – stanno alimentando il nazionalismo e assecondando il discorso ideologico ufficiale, incardinato sui princìpi di stabilità sociale, efficienza della performance governativa e netto rifiuto della democrazia liberale.

Un sondaggio condotto il mese scorso dal governativo Global Times ha rivelato che i giovani cinesi che guardano con ammirazione all’occidente sono diminuiti del 30 per cento. Il tabloid nazionalista va preso con le molle, eppure sono tanti gli indizi (dalle controversie con i brand occidentali, alle sanzioni di Washington e Bruxelles contro Pechino, all’esplosione del patriottismo online) che negli ultimi mesi hanno evidenziato un aumento del nazionalismo, controllato (o addirittura guidato) dal Partito.

Steve Tsang, scienziato politico della School of Oriental and African Strudies (Soas) di Londra, tra i più attenti osservatori della politica cinese, ha rilevato che «con la Cina in ascesa proprio mentre le democrazie occidentali sono state indebolite dall’ex presidente americano Donald Trump e dal premier britannico Boris Johnson, e dalla loro mediocre gestione della pandemia, la narrazione nazionalistica partitocentrica di Xi Jinping in Cina si dimostra attraente».

Studiare il pensiero di Xi

I mandarini del terzo millennio dovranno essere fedeli al Partito e incorruttibili. Ai funzionari pubblici oggi viene richiesto di studiare il Pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una Nuova èra utilizzando una app ad hoc (Xuexi Qiangguo), che invia notifiche sui questionari da compilare e li tiene aggiornati sulle direttive del Partito e le leggi dello stato. Mentre la nuova Commissione nazionale di controllo ha esteso la giustizia parallela del Partito a tutti i dipendenti pubblici, che ora in caso di malversazione rischiano lo stesso trattamento (carcerazione preventiva e interrogatori in località segrete) riservato agli iscritti al Pcc dalla Commissione centrale di vigilanza.

Stop ai curriculum stranieri

La repressione dell’imprenditoria privata – anche della cosiddetta “borghesia nazionale”, che in un primo tempo il nuovo regime aveva provato a cooptare – e il ripiegamento della Cina sul suo enorme apparato burocratico accompagnò l’isolamento del paese a seguito dello scoppio della Guerra di Corea (1950-1953), quando gli Stati Uniti decisero infine di non riconoscere la Repubblica popolare istituita da Mao e compagni il 1° ottobre 1949. Xi Jinping nelle ultime settimane ha provato a rassicurare i capitalisti cinesi. «Continueremo a incoraggiare lo sviluppo dell’imprenditoria privata e, quando incontrerà delle difficoltà, il Partito e lo stato la sosterranno», ha dichiarato il segretario generale del Pcc.

Ma è chiaro che – in alcuni settori – il ridimensionamento del settore privato risponde a una precisa strategia politica. A confermare queste tendenze è arrivato l’annuncio di una norma che entrerà in vigore il prossimo 1° settembre, proibendo l’adozione di curriculum stranieri dall’asilo alle scuole K-9 (le scuole dell’obbligo, elementari-medie), nonché il controllo di queste istituzioni da parte di aziende e/o enti esteri. Il Partito vuole che gli scolari apprendano l’ideologia della Nuova era, un pot-pourri di marxismo semplificato, confucianesimo e patriottismo frutto dell’ultimo «successo della sinizzazione del marxismo», ovvero il Pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova èra. Secondo la nuova Legge sulla promozione dell’istruzione privata, nei consigli d’amministrazione di queste istituzioni potranno figurare solo cittadini cinesi e tra loro dovranno esserci rappresentanti delle autorità di controllo.

Questo mentre negli ultimi giorni alla Hupan Academy è stato tolto lo status di università che l’istituzione fondata da Alibaba nella metropoli di Hangzhou si era auto attribuita dal lontano 2016, e provvedimenti analoghi sono stati presi contro i campus di altri colossi del settore privato come Tencent (internet), Dedao (hi-tech) e di Hundun, finanziato da un insieme di venture capital e corporation.

Dall’economia all’istruzione, lo stato riguadagna terreno sul mercato. E i giovani cinesi, tra pragmatismo e patriottismo, sono pronti ad adeguarsi.

© Riproduzione riservata