«La Cina ha finalmente un deterrente contro l’egemonia occidentale». Così i media governativi hanno salutato la Legge contro le sanzioni straniere, varata il 10 giugno scorso dal Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo (il parlamento di Pechino) ed entrata immediatamente in vigore.

La norma è stata approvata a tempo di record dopo che, per la prima volta dal massacro di Tiananmen, negli ultimi mesi 45 funzionari del Partito comunista cinese (tra i quali 15 deputati dell’Anp) sono stati colpiti da sanzioni da parte dell’Unione europea e dei governi di Stati uniti, Gran Bretagna e Canada per la repressione dei musulmani del Xinjiang, e a 59 compagnie cinesi è stato impedito di investire negli Usa perché ritenute legate all’Esercito di liberazione popolare. Punizioni che Pechino definisce «illegali», ovvero unilaterali.

La nuova legge cinese è passata all’Anp proprio mentre il Senato Usa dava il via libera allo “Innovation and Competition Act”, che dà al presidente il potere di sanzionare individui o enti che abbiano rubato segreti commerciali statunitensi o compiuto o facilitato cyber-attacchi contro gli States. Occhio per occhio, dente per dente: Pechino e Washington appaiono determinate a regolare le loro sempre più numerose controversie tecnologiche, commerciali e politiche secondo l’antico principio biblico.

Le regole

La Commissione affari giuridici del Comitato permanente dell’Anp ha fornito un esempio della varietà di individui e istituzioni interessati dalla Legge contro le sanzioni straniere: «Alcuni paesi occidentali – che con il pretesto del Tibet, di Hong Kong, di Taiwan e del Mar cinese meridionale, e della pandemia di Covid-19, interferiscono negli affari interni della Cina, imponendo con prepotenza le cosiddette sanzioni contro funzionari governativi cinesi – assieme a entità e individui di questi paesi subiranno contromisure che faranno assaggiare loro la stessa medicina».

Tra le contromisure, previste dall’artico 6: il diniego di visti d’ingresso nella Repubblica popolare cinese, la deportazione per chi si trovasse già in Cina, il congelamento o la confisca di proprietà e il divieto per le istituzioni cinesi di effettuare qualsiasi transazione con le persone e/o le organizzazioni sanzionate. Oltre a quelle dettagliate nel testo, vengono lasciati al governo ampi margini di discrezionalità nel decretare eventuali provvedimenti aggiuntivi.

A tutti i cittadini cinesi è vietato aiutare altri paesi ad applicare misure contro la Cina, mentre se un’organizzazione o un individuo aiuteranno un paese straniero ad adottare misure discriminatorie, potranno essere portati in tribunale dai cittadini e dalle organizzazioni cinesi.

Un chiaro segnale anche nei confronti di tutti quei ricercatori e attivisti che (soprattutto all’estero, mentre non è chiaro se/come la nuova legge sarà applicata alla Regione amministrativa speciale di Hong Kong), a vario titolo collaborano con Ong e think tank stranieri.

Molto spesso infatti questi esperti – grazie alla loro conoscenza della lingua, della cultura e della politica della Cina – forniscono informazioni importanti per i report di centri di ricerca stranieri, che vengono utilizzati dai governi a sostegno di provvedimenti sanzionatori.

E le multinazionali e le banche internazionali che operano in Cina? Potrebbero essere costrette a scegliere tra applicare le sanzioni straniere rinunciando ai mercati cinesi, o non rispettare la legge esponendosi alle relative conseguenze in patria. In breve, a scegliere tra Cina e Usa, accelerando la tendenza al cosiddetto decoupling tra la seconda e la prima economia del pianeta.

Ma potrebbero anche essere spinte a fare lobbying presso l’amministrazione Usa per rimuovere le sanzioni. Oppure infine potrebbero dividersi in due entità completamente separate dal punto di vista della proprietà: una per il mercato cinese e l’altra per il resto del mondo.

Le linee rosse di Pechino

Le punizioni fin qui varate dall’occidente hanno irritato la leadership di Pechino, che da anni lavora per costruire l’immagine di una Cina «potenza responsabile» che avanza pacifica lungo la nuova via della Seta, fautrice della cooperazione a tutti i livelli e senza tentazioni egemoniche. Oltre che un affronto, Xi e compagni ritengono che le sanzioni da parte di singoli governi costituiscano un’indebita ingerenza negli affari interni, in linea con l’interpretazione che il Pcc dà ai princìpi di sovranità e interesse nazionale, relativamente alle “linee rosse” di Taiwan (che per Pechino è una provincia ribelle, da riconquistare); del Xinjiang, del Tibet e di Hong Kong (dove l’indipendentismo e l’autonomismo vengono equiparati al terrorismo, sostenuto da “interferenze straniere”); del Mar cinese meridionale (dove Pechino dichiara di voler risolvere i contenziosi territoriali con i suoi vicini asiatici e respinge ogni “ingerenza” statunitense).

Negli ultimi mesi, con le sue rappresaglie Pechino aveva già risposto colpo su colpo alle sanzioni occidentali, ma con contromisure amministrative, al di fuori di un quadro giuridico definito.

Dalla fine del 2019 infatti Pechino ha contro-sanzionato quelle che definisce «azioni malvagie che violano la sovranità della Cina da parte di forze occidentali». Le prime ad essere colpite, nel dicembre di due anni fa, erano state quattro organizzazioni (Human Rights Watch, National Endowment for Democracy, Ned, Freedom House e National Democratic Institute, Ndi) per il loro sostegno al movimento pro democrazia di Hong Kong. L’estate scorsa, oltre a Lockheed Martin (per la vendita di armi a Taiwan), erano stati sanzionati i primi individui: i senatori Marco Rubio, Ted Cruz e Tom Cotton, il deputato Chris Smith e l’ex ambasciatore Samuel Brownback (tutti repubblicani ultra-conservatori fautori di politiche fortemente anti-cinesi), il presidente del Ned, Carl Gershman, e quello del Ndi, Derek Mitchell. Nell’ottobre 2020 le compagnie Boeing e Raytheon si erano aggiunte a Lockheed Martin nella lista nera per la fornitura di armamenti a Taipei. Il mese successivo ancora due studiosi: il direttore del programma Asia del Ned, John Knaus e quello della sezione Asia-Pacifico del Ndi, Manpreet Anand.

L’escalation con Trump

All’inizio di quest’anno era poi iniziata una vera e propria escalation contro l’amministrazione Trump, con provvedimenti nei confronti del suo segretario di stato, Mike Pompeo, anch’egli fautore (almeno a parole) di uno scontro totale con la Cina, l’accademico Peter Navarro, consigliere commerciale di Trump e autore del bestseller Death by China, e il consigliere per la sicurezza nazionale Robert O’ Brien. Lo scontro sulla repressione dei musulmani nel Xinjiang (secondo Pechino la «diffusione di bugie» sulla situazione nella regione del nord-ovest) nel marzo scorso aveva colpito una decina di funzionari Ue e quattro “entità” (tra le quali il principale think tank europeo sulla Cina, il tedesco Mercator Institute for Chinese Studies, Merics), e quello che Pechino definisce «pseudo-ricercatore anti-Cina», ovvero Adrian Zenz, lo studioso che con le sue analisi delle mappe satellitari della Regione ha contribuito a scoperchiare il calderone degli effetti dell’ultima campagna di Pechino contro “i tre mali” del terrorismo, dell’estremismo e del separatismo.

L’approvazione della Legge contro le sanzioni straniere rappresenta l’ennesimo segnale della consapevolezza della leadership del Partito di guidare un paese che – così vengono presentate le mosse di Xi e compagni a un’opinione pubblica sempre più nazionalista – vuole diventare ricco e forte (fù qiáng) e che dunque non può subire lo schiaffo di sanzioni occidentali senza reagire: come recita il proverbio cinese, «non offendere nessuno se nessuno ti offende, ma contrattacca se vieni colpito». Un ennesimo stress test per la capacità del partito di rispondere alle sfide che si presentano lungo il percorso – che con lo scontro con gli Usa si fa sempre più accidentato – verso l’agognata modernizzazione.

Nello stesso tempo la Legge contro le sanzioni straniere rivela che la leadership si sente sotto assedio su una serie di dossier che continua a rivendicare come “affari interni”, ma che, di fatto, sono diventati dei casi internazionali anche per l’intransigenza ostentata nell’affrontarli, che le politiche del Pcc non hanno ancora risolto, e che rischiano di alimentare continue incomprensioni e tensioni con l’occidente.

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