Nel corso di una conferenza ministeriale tra i rappresentanti dell’Associazione delle nazioni del sudest asiatico (Asean) e dell’Unione europea, tenutasi a settembre dello scorso anno, l’alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Joseph Borrell, si era espresso in maniera inequivocabile in riferimento alla situazione nel mar Cinese Meridionale, dichiarando come, in quel contesto geografico, non si potesse permettere a nessun attore di «minacciare unilateralmente il diritto internazionale e la sicurezza, ponendo una seria sfida allo sviluppo pacifico dell’area». L’affermazione di Borrell, che aveva in Pechino l’ovvio destinatario, si allineava alla posizione costantemente espressa dall’Unione europea, che sulla faccenda aveva invitato a una risoluzione pacifica senza peraltro risparmiare critiche anche serrate nei confronti di coloro che non si attengono al diritto internazionale.

È bene ricordare come il mar Cinese Meridionale – specchio d’acqua ricco di risorse – sia da molti anni al centro di una disputa tra la Cina, che reclama la sovranità sulla quasi totalità delle acque in base a presunte evidenze storiche, e vari stati del sudest asiatico che, al contrario, guardano con timore al continuo espansionismo di Pechino. L’Unione europea, nonostante rappresenti una voce geograficamente distante su queste questioni, nutre certamente tutto l’interesse a non permettere che la situazione si inasprisca ulteriormente: il 40 per cento circa del volume commerciale del Vecchio continente, infatti, transita attraverso quell’area, rendendola economicamente indispensabile.

A parte tali considerazioni, il rispetto del diritto internazionale e il mantenimento di un sistema caratterizzato da regole stringenti sono sempre stati considerati come dei pilastri nella modellazione e nella gestione dell’impegno esterno dell’Unione. La risposta europea, almeno fino a questo momento, è risultata particolarmente frammentata, lasciando nelle mani dei singoli stati membri la possibilità di assumere una precisa posizione in ambito di politica estera e di sicurezza. Ciononostante, negli ultimi mesi si è intravista la possibilità di una svolta caratterizzata da una maggiore partecipazione da parte delle potenze europee alle operazioni – sinora avallo quasi esclusivo dei soli Stati Uniti – volte ad assicurare la libertà di navigazione all’interno del mar Cinese Meridionale. Un messaggio simbolico particolarmente rilevante: aumentare la presenza delle imbarcazioni europee in Asia al fine di testimoniare il diritto degli stati al transito in acque internazionali, un principio sistematicamente osteggiato dalla Cina.

Grandi manovre

Da questo punto di vista la Francia ha fatto da pioniera, avendo inviato lo scorso febbraio un sottomarino nucleare, opportunamente scortato, nelle acque del mar Cinese Meridionale, confermando peraltro l’intenzione di partecipare anche a esercitazioni militari congiuntamente a Stati Uniti e Giappone. La Germania, dal canto suo, ha annunciato che una propria nave da guerra raggiungerà l’Asia ad agosto: la mossa, accolta molto favorevolmente da Washington, rappresenta un deciso cambio di direzione nell’atteggiamento tedesco rispetto a quelle acque, in particolare a causa della tradizionale attenzione che Berlino ha riservato al proprio vicinato. Le sole operazioni per assicurare la libertà di navigazione, tuttavia, si sono rivelate del tutto insufficienti al fine di contenere l’aggressività delle imbarcazioni cinesi, come testimoniato dalle 44 incursioni in quell’area verificatesi dall’inizio del 2021. Proprio per questo motivo, negli scorsi mesi, alcuni paesi europei – Francia, Germania e Olanda – hanno formulato una serie di azioni riguardanti la cosiddetta area indo-pacifica, vale a dire quella compresa tra l’oceano Indiano e l’oceano Pacifico che, a differenza della dizione “Asia orientale”, evidenzia con forza il ruolo dell’India, la centralità dell’Asean e la rilevanza delle linee di comunicazione che si sviluppano tra l’Europa e l’Asia, solcate incessantemente dalle navi che alimentano i reciproci scambi commerciali. Tali strategie miravano a consegnare all’Unione un ruolo di maggiore centralità nella cooperazione con altri attori volta ad assicurare il libero transito e la sicurezza marittima nella regione.

La risposta di Pechino è stata improntata alla massima pacatezza, dato che il ministero degli Esteri cinese ha riaffermato come non esista alcun problema relativamente alla libertà di navigazione nel mar Cinese Meridionale, ribadendo però la propria opposizione a qualunque attività che metta a repentaglio la sovranità e la sicurezza della Cina minando la pace e la stabilità della regione.

Rapporti instabili

Nelle ultime ore, comunque, il confronto tra Pechino e l’Unione europea ha assunto dei toni decisamente più aspri, a causa della decisione dei 27 stati membri di rafforzare il proprio focus strategico e la propria presenza, con una prospettiva di lungo termine, nell’area indo-pacifica, considerata come il fulcro mondiale dal punto di vista economico e strategico. L’obiettivo dichiarato è quello di contribuire alla stabilità regionale, così come allo sviluppo sostenibile, alla sicurezza e alla prosperità, in un periodo di crescenti tensioni. Ciò che salta agli occhi – nonostante l’Unione abbia messo le mani avanti, sostenendo come tutto ciò non debba essere visto come un piano anti-cinese – è l’indiretto riferimento alla responsabilità di Pechino per la competizione geopolitica di cui l’area è stata fatta oggetto e la violazione dei diritti umani. Tali sviluppi, che minacciano la stabilità e la sicurezza regionale, avrebbero un impatto diretto anche sugli interessi europei. È facile supporre come la mossa europea possa rendere i rapporti bilaterali ancor più instabili di quanto essi non siano già, almeno a partire dal marzo 2019, quando Bruxelles ha osato definire la Cina come un «rivale sistemico» il cui obiettivo era quello di promuovere dei modelli alternativi di governance.

Ciononostante, la Cina rimane il principale partner commerciale dell’Europa, avendo ormai superato gli Stati Uniti. Pechino, tuttavia, è crescentemente preoccupata della possibilità che l’Europa stia infine raccogliendo l’invito di Biden per un «approccio coordinato» contro la Cina che, fino a ora, si è concretizzato sotto forma di sanzioni la cui adozione è stata decisa come risposta alle vicende di Hong Kong e al trattamento degli uiguri musulmani nello Xinjiang. La più corposa presenza degli europei nel mar Cinese Meridionale potrebbe aumentare i rischi legati a un “errore di calcolo”, in particolare in quelle acque. Peraltro questo focus da parte degli europei sul mar Cinese Meridionale non coincide necessariamente con un allineamento delle priorità, in particolare tra i paesi leader in Europa, come Francia e Germania. L’Unione non può aspettarsi di stemperare l’impatto della Cina sulla regione solo a causa della propria presenza: per riscuotere un qualche tipo di successo gli europei avranno necessità di fornire delle alternative economiche, politiche e strategiche che possano mettere in crisi l’asimmetria, rispetto ai propri interlocutori regionali, di cui Pechino ha finora goduto e che le ha concesso di dettare i termini della relazione.

Ciò, peraltro, non dovrà tradursi in un allontanamento dalla Cina ma in una maggiore inclusività che possa incoraggiare Pechino a conformarsi agli standard e ai comportamenti internazionali.

 

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