L’Asia agli asiatici. Si potrebbe sintetizzare così il discorso con il quale Xi Jinping è intervenuto per “dettare la linea” nel giorno in cui sono entrati in vigore i super dazi (104 per cento) voluti da Donald Trump, e in cui Pechino a sua volta li ha aumentati del 50 per cento sulle importazioni Usa in Cina, mentre lo stesso presidente americano, in un gioco apparentemente infinito di rilanci, contrattacca di nuovo alzando «con effetto immediato» le tariffe contro il Dragone «al 125 per cento».

Insomma, ora per Pechino fa 125 a 84, che non è il risultato di una partita di basket, ma di un’escalation che, secondo l’ex segretario al Tesoro Usa, Lawrence Summers, causerà una crisi finanziaria e una recessione globale.

«Stiamo entrando in una fase cruciale di cambiamenti nelle dinamiche regionali e negli sviluppi globali», ha sostenuto il presidente cinese. Xi ha invitato a «costruire una comunità con un futuro condiviso» con i paesi vicini. Lo stesso leder che nel 2017 al World Economic Forum di Davos bacchettò Trump ricordandogli che «è vero che la globalizzazione economica ha creato nuovi problemi, ma questo non ne giustifica l’eliminazione» ha dovuto prendere atto della marea montante del protezionismo.

E si è rassegnato a una globalizzazione ristretta e forse addirittura a un “decoupling”, seppur parziale, da quegli Stati Uniti d’America ai quali l’economia cinese si è intrecciata negli ultimi trent’anni, trasformandosi nella “fabbrica del mondo” delle multinazionali.

Grande muraglia asiatica

Del resto, sono confinanti e/o asiatiche cinque delle prime 15 economie del mondo (Cina, Giappone, India, Russia, Corea del Sud). E poi ci sono i dieci “emergenti” dell’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico (primo partner commerciale della Cina nel 2024, con 953 miliardi di dollari di interscambio). Tutti, eccetto la Russia, esportatori contrari a barriere tariffarie elevate, e interessati ad approfittare dell’ascesa della Cina, per vendervi tecnologia, materie prime e prodotti alimentari, per attrarne gli investimenti.

I vicini asiatici sono «una base importante per il raggiungimento dello sviluppo e della prosperità, un’area chiave per la salvaguardia della sicurezza nazionale», ha concluso Xi, in partenza per visite di stato in Vietnam, Malesia e Cambogia, che si sono visti appioppare da Trump dazi del 46, 24 e 49 per cento rispettivamente.

Pechino proverà insomma ad approfondire l’integrazione panasiatica, incrementando la connettività e rafforzando la cooperazione industriale. Intanto risponde a Washington colpo su colpo. Ieri il ministero del commercio, nell’annunciare gli ultimi controdazi del 50 per cento, ha ribadito che «la Cina difenderà fermamente i suoi interessi, il sistema commerciale multilaterale e l’ordine economico internazionale».

Del resto, l’America di Trump è ormai un avversario dichiarato, mentre ridare slancio a scambi e investimenti con un’Unione europea senza una guida comune, e fintantoché continua la guerra in Ucraina, è un’operazione complessa.

Va ricordato tuttavia che molti dei suddetti stati si affacciano su quel Pacifico sul quale gli Usa esercitano la loro egemonia, sostenuta da alleanze politiche (Giappone, Corea del Sud, Filippine, tra gli altri) e dai cannoni della VII flotta. E dove sorgono i territori contesi nel Mar cinese meridionale e Taiwan. Secondo i media Usa, il segretario alla Difesa, Pete Hegseth, avrebbe firmato un documento interno che definisce Pechino una «minaccia primaria» e indica nella deterrenza da un’eventuale invasione cinese di Taiwan una priorità strategica del Pentagono.

Messaggi armati

Il portavoce del ministero della Difesa, Zhang Xiaogang, ieri ha risposto che trattare la Cina come una minaccia «è un grave errore di valutazione strategica che porterà solo a conseguenze disastrose». Come a ricordare che dalla guerra commerciale a quella guerreggiata il passo è breve.

In attesa che Trump faccia marcia indietro, o che si apra un dialogo, in Cina i media governativi provano a tranquillizzare una popolazione preoccupata dalle conseguenze della chiusura del mercato dove l’anno scorso le compagnie cinesi hanno venduto beni per 438 miliardi di dollari (il 14,7 per cento dell’export della Cina nel mondo). «La Cina non mostrerà debolezza, né cederà, e dimostrerà al mondo la sua ferma determinazione a mantenere un sistema commerciale multilaterale, responsabilità della Cina in quanto grande potenza globale», assicura la Cctv.

Mentre analisti e commentatori vari si esercitano a immaginare ulteriori rappresaglie contro gli Usa, come un aumento sostanziale delle tariffe sulla soia statunitense, il divieto di importazione di pollame e film di Hollywood, la sospensione della cooperazione sul controllo del fentanyl e via dicendo. Proposte che non riescono a nascondere la preoccupazione per un crollo della domanda interna. Le prime stime parlano di una diminuzione del Pil, per effetto della riduzione dell’export verso gli Usa, dell’1,5-2 per cento quest’anno.

Arriverà un piano di stimolo. Ma, se le tariffe resteranno in vigore, a subire le conseguenze più devastanti saranno le industrie ad alta intensità di lavoro che impiegano milioni di persone, soprattutto al Sud, lungo il delta del Fiume delle perle: abbigliamento, elettrodomestici, mobili. I cosiddetti “tre vecchi” la cui forza lavoro non è riassorbibile dai “tre nuovi” settori – altamente meccanizzati – che li hanno soppiantati sul podio delle esportazioni cinesi: auto elettriche, batterie elettriche e pannelli solari.

Se il braccio di ferro con Trump andrà avanti, per la Cina si aprirà presto una fase forse più drammatica di quella del Covid-19, non a caso il Quotidiano del popolo ha invitato i cinesi a «stringersi assieme per affrontare la tempesta».

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