La Repubblica popolare cinese non aveva mai visto tante cerimonie di laurea come quest’estate: 10,76 milioni. Nel 2013, a uscire dalle università erano stati 6,99 milioni di studenti, aumentati costantemente, fino al record dell’anno accademico appena concluso.

Per la strategia di “innovazione autoctona” (zìzhŭ chuàngxīn) varata dalla leadership di Pechino si tratterebbe di una buona notizia, perché sul mercato si affacciano sempre più giovani qualificati, soprattutto nelle cosiddette discipline Stem (scienza, tecnologia, ingegneria, matematica). Se non fosse che questa massiccia offerta di lavoro negli ultimi tempi incrocia difficilmente una domanda che si è rattrappita in conseguenza di un micidiale uno-due: prima la campagna contro le compagnie hi-tech, poi la politica “contagi zero” per arginare la diffusione del Covid, entrambe col marchio di fabbrica di Xi Jinping.

Il 2021 è passato alla storia per il clamoroso giro di vite che ha addomesticato in ogni ambito (economico, finanziario, ideologico) colossi come Alibaba e Tencent. Il risultato, stimato, è di centinaia di migliaia di licenziamenti. Il solo New Oriental Education & Technology Group (tutoraggio privato online) ha ammesso di aver mandato a casa 60mila dipendenti.

Quest’anno a determinare pesanti ristrutturazioni nel settore privato, in particolare quello dei servizi (53,3 per cento del Pil), è stata l’incertezza generata dai lockdown, soprattutto quello di Shanghai.

Ridimensionare le aspettative

Negli ultimi decenni nelle metropoli cinesi i ragazzi si erano abituati a ottenere un buon lavoro e a trovarlo presto, prima della laurea, quando, in primavera, i chioschi aziendali spuntano nei campus come funghi, a caccia di talenti.

L’economia nazionale però sta rallentando più del previsto: +2,2 per cento nel 2020, +8,1 per cento nel rimbalzo del 2021 e, quest’anno, quasi nessuno crede che sarà centrato l’obiettivo indicato dal premier Li Keqiang, del +5,5 per cento.

E così a metà aprile solo il 47 per cento dei laureandi aveva ricevuto un’offerta di lavoro, contro il 62,8 per cento dello stesso periodo nel 2021. Nel settore automotive XPeng (la Tesla locale) e il produttore di suv Lixiang hanno perfino stracciato i pre-contratti.

Il mese scorso il tasso di disoccupazione giovanile (16-24 anni) è stato del 19,3 per cento, il più alto di sempre.

I neolaureati dovranno per la prima volta ridimensionare le aspettative, accontentarsi di stipendi da 5.000 yuan (730 euro), mentre due anni fa l’aspettativa salariale media era di 7.000 yuan (1.024 euro). Considerando che molti studenti sono stati rinchiusi per mesi nei campus per arginare la diffusione del SARS-CoV-2, ci si potrebbe attendere un’esplosione di malcontento. A metà maggio a Beida – l’ateneo pechinese da cui sono partiti i principali movimenti della Cina contemporanea – c’è stata una protesta contro il confinamento nel campus, poi niente più. 

A maggio le aziende di stato di Shanghai hanno annunciato che il 50 per cento delle nuove assunzioni sarà riservato a neolaureati, mentre il governo locale ha offerto alle imprese un sussidio di 2.000 yuan (292 euro) per ogni neolaureato assunto.

Chi può permetterselo invece ritarda l’ingresso nel mondo del lavoro, per rincorrere un titolo di studio più elevato, che offre prospettive migliori. Secondo una ricerca di Beida chi ha conseguito un master può aspirare a stipendi mediamente da 10.000 yuan (1.462 euro), mentre un dottorato dà la possibilità di guadagnarne 15.000 (2.193 euro). Ma la competizione è accanita anche per l’accesso a un programma post lauream: 4,57 milioni di richieste per 1,2 milioni di posti. E così, per master e dottorati si ritenta il test d’ammissione anche due-tre volte. Inoltre ora s’intraprende la ricerca di un impiego molto prima dell’ultimo anno di studi, partecipando a tirocini e attività pre-professionali. Una ricerca dei recruiter di Zhilian Zhaopin ha evidenziato che il 74 per cento dei laureati di quest’anno ha avuto esperienze di tirocinio (+57,9 per cento rispetto al 2021).

In uno studio pubblicato sulla rivista Research in Social Stratification and Mobility, due sociologi, Yue Qian, della University of British Columbia (Canada) e Wen Fan, del Boston College hanno sostenuto che «istruzione, reddito familiare, appartenenza al partito comunista, occupazione nel settore statale e la residenza (hùkŏu) urbana (piuttosto che quella rurale, ndr), tutti i tradizionali indicatori di status della Repubblica popolare cinese, proteggono dai problemi finanziari legati al Covid-19. Le disuguaglianze sociali preesistenti sono state quindi amplificate».

Il Pcc sfiora i 100 milioni d’iscritti

Il trauma economico e sociale del Covid ha fatto maturare tra i giovani una necessità di “protezione” che, in molti casi, li ha spinti nelle braccia del settore pubblico, ovvero del partito-stato. Quest’anno si sono iscritte al concorsone per entrare nell’amministrazione oltre 2 milioni di persone (tra cui molti neolaureati), mentre nei 12 anni precedenti avevano oscillato tra 1,3 e 1,6 milioni. Passerà un candidato su 68. Si tratta di un aumento di richieste originato dalla percezione che il privato – che tradizionalmente domina l’economia urbana, sia in termini di Pil che di addetti – è diventato meno sicuro e attraente. «I miei genitori e i miei nonni hanno sempre detto che essere un funzionario pubblico è la migliore carriera in Cina, ma io non me la sono mai bevuta - ha raccontato a South China Morning Post la studentessa pechinese Katy Yao -. Poi la pandemia di Covid-19 mi ha convinto dei vantaggi di avere uno stile di vita garantito: reddito stabile, buoni benefici e poche possibilità di perdere il lavoro».

Un sondaggio pubblicato ad aprile da Zhilian Zhaopin rileva che il 44 per cento dei neolaureati quest’anno desidera entrare nelle aziende di stato (Soe) e il 26 per cento preferisce le società affiliate al governo o i dipartimenti governativi. Solo il 17 per cento ha dichiarato di essere interessato a lavorare per una compagnia privata, mentre il restante 13 per cento punterà su imprese straniere.

Oltre che a quelli di una drammatica congiuntura, siamo di fronte agli effetti del riequilibrio dei rapporti tra stato e mercato promosso da Xi e compagni, mentre nella pandemia il partito-leviatano continua a ingigantirsi (+4,8 milioni di tesserati nel 2020-2021). Secondo gli ultimi dati pubblicati dal Partito comunista cinese, i suoi iscritti sono aumentati del 3,7 per cento l’anno scorso, raggiungendo quota 96,71 milioni.

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