Il numero uno del Partito comunista cinese ad Hangzhou è sotto inchiesta assieme a migliaia di quadri locali, che si stanno “auto-indagando”. Nella città di Alibaba si è aperto un nuovo fronte della campagna anti-corruzione permanente promossa da Xi Jinping quando, sabato scorso, per «gravi violazioni disciplinari e delle leggi», Zhou Jiangyong è finito sotto la lente della Commissione centrale di vigilanza (Ccdi), l’organismo che indaga sugli iscritti del Pcc: è il prodromo dell’espulsione e del carcere per l’uomo che il Global Times già definisce una «tigre decaduta», un grosso calibro corrotto fermato dalle autorità.

Il cinquantaquattrenne Zhou è segretario di partito dal maggio del 2018 nel capoluogo il cui prodotto interno lordo (245 miliardi di dollari nel 2020) ammonta a un quarto di quello della provincia dello Zhejiang, a sua volta un quarto del Pil dell’intera Cina. Il funzionario più alto in grado indagato negli ultimi anni avrebbe avuto consuetudine con Jack Ma. Il suo cursus honorum si è svolto tutto nello Zhejiang, dove era stato segretario di partito anche a Zhoushan e Wenzhou. Secondo quanto riportato dal quotidiano shanghaiese The Paper, parenti di Zhou avrebbero acquistato azioni di Ant Group subito prima dell’offerta iniziale d’acquisto (Ipo) bloccata il 3 novembre 2020 dai massimi vertici del partito. Giovedì scorso si era già “arreso volontariamente” Ma Xiaohui, ex vice segretario di partito ad Hangzhou, sospettato anch’egli di corruzione.

L’auto indagine

L’intera burocrazia cittadina del Pcc viene rivoltata come un calzino. A 25 mila quadri è stata ordinata una “auto-indagine”: dichiarare se la loro condotta rientra in una delle dieci fattispecie di conflitto d’interesse presentate loro dalla Ccdi. Si punta sopratutto su “prestiti illegali” per le attività economiche di mogli e figli dei quadri di Hangzhou.

Tutto questo dopo che l’ultra-mediatico Jack Ma è sparito dalla scena pubblica, e Pechino ha ingabbiato le sue galline dalle uova d’oro: la holding Ant Group con la cui Ipo il magnate di Hangzhou puntava a raccogliere 37 miliardi di dollari nelle borse di Shanghai e Hong Kong, e Alibaba, che il 9 aprile scorso si è vista appioppare dall’anti-trust una multa da 2,8 miliardi di dollari per “abuso di posizione dominante”. Probabilmente ad Hangzhou il partito sta smantellando un centro di potere politico-economico “alternativo”, come avvenuto tante volte in passato, ad esempio con la cacciata dal partito e l’ergastolo nel giugno 2015 per l’ex membro del Comitato permanente dell’Ufficio politico Zhou Yongkang e la cattura di decine di suoi accoliti della lobby petrolifera nella provincia del Sichuan.

Il terremoto politico ha colpito Hangzhou mentre Xi Jinping lanciava la parola d’ordine “benessere comune”. La nuova linea è emersa al termine della riunione di martedì scorso della Commissione centrale del partito per gli affari economici e finanziari, il più importante organismo economico del Pcc. Un consesso che si è svolto subito dopo le tradizionali due settimane di vacanza dei leader comunisti nella località balneare di Beidaihe (nello Hebei) e destinato a indirizzare le prossime decisioni di politica economica. La principale preoccupazione della leadership di Pechino – in questa fase caratterizzata dagli sforzi per dar vita a una manifattura avanzata, dalla pandemia, e da una crescente ostilità da parte dell’occidente – è quella di una riduzione delle disuguaglianze, in mancanza della quale può essere minata la legittimità a governare di un partito per il quale, per statuto, «il più alto ideale e il fine ultimo del partito è la realizzazione del comunismo». Per questo – si legge nel comunicato ufficiale del meeting – lo stato «deve regolare in modo ragionevole i redditi eccessivi e incoraggiare gli individui e le imprese con reddito elevato a restituire di più alla società». Perché la ricerca del “benessere comune” serve anche a «continuare a rafforzare le fondamenta del governo del partito nel lungo periodo». Il resoconto dell’incontro chiarisce che il “benessere comune” «non equivale all’egualitarismo» e «deve essere promosso gradualmente». Il partito continuerà a «consolidare il settore pubblico» e «incoraggiare, sostenere e guidare lo sviluppo del settore non pubblico dell’economia». A Pechino da tempo hanno fiutato l’aria che tira. Campagne come quelle contro i grandi monopoli di internet e contro l’istruzione privata che tanto clamore hanno suscitato nei media internazionali negli ultimi mesi non sono che l’antipasto: il governo si prepara ad aumentare la tassazione nei confronti dei ricchi e delle grandi compagnie, i cui tycoon si stanno già adattando al nuovo Zeitgeist aumentando donazioni e attività filantropiche. Nella Cina che i media occidentali vorrebbero prigioniera del suo passato maoista non si tratta del ritorno alla “ciotola di riso di ferro” garantita a tutti, ma di un tentativo di rispondere alle tensioni sociali accentuate dalla pandemia.

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