Dopo due giorni di vertici a Londra, un’intesa sul commercio di principio. Ma la fuga in avanti della Casa Bianca rischia di irritare Pechino, più prudente in pubblico
Dopo due giorni di faccia a faccia a Londra, le delegazioni ai massimi livelli inviate da Pechino e Washington ieri hanno partorito un’intesa sul commercio bilaterale definita “di principio”, che dovrà passare al vaglio dei rispettivi presidenti.
Donald Trump, l’autoproclamato Tariff Man che negli ultimi mesi ha trasformato Wall Street nelle montagne russe e fatto schizzare alle stelle il costo per spedire un container da una sponda all’altra del Pacifico, in serata ha dato per fatto l’accordo, annunciando sul suo social Truth: «Accordo raggiunto, sbloccata la consegna di terre rare».
Trump ha messo il carro davanti ai buoi, con forzature e toni che potrebbero irritare Pechino: «Tutte le terre rare necessarie saranno fornite, in anticipo, dalla Cina. Allo stesso modo daremo alla Cina ciò che è stato concordato, compresi gli studenti cinesi che utilizzano i nostri college e università (cosa che mi è sempre piaciuta)». Inoltre, in base ai calcoli del presidente «ci viene imposto un totale di dazi del 55 per cento, mentre la Cina ne riceve il 10 per cento. Il rapporto è ottimo».
La prudenza cinese
Qualche ora prima, i cinesi erano stati decisamente più prudenti. Li Chenggang, nel gruppo di alti funzionari guidato dal vice premier He Lifeng, si era limitato a dichiarare che «ci auguriamo che i progressi compiuti in questo incontro di Londra contribuiscano a rafforzare la fiducia tra Cina e Stati Uniti».
Quanto concordato a Ginevra l’11 maggio – ovvero il “meccanismo di consultazione Usa-Cina su economia e commercio” – era quasi deragliato dopo che la settimana scorsa l’amministrazione Trump aveva imposto nuovi divieti all’export di software per produrre microchip, e in seguito all’annuncio del segretario di stato, Marco Rubio, della revoca di visti di studio negli Usa a universitari cinesi «legati al partito comunista». Ieri quel “meccanismo” ha finalmente iniziato a girare e così la tregua sui super dazi (145 per cento contro 125 per cento) può reggere, e nelle prossime settimane potranno essere affrontate le questioni più spinose.
Il falco pro-dazi Howard Lutnick ha valutato il summit come un inizio. «L’obiettivo fondamentale è ridurre il deficit commerciale e aumentare gli scambi commerciali. È stato il primo passo di un accordo quadro», ha dichiarato il segretario al commercio Usa. Ma di quanto la Cina potrà aumentare le importazioni dagli Stati Uniti in una fase di prolungato rallentamento della domanda interna, mentre quella di diversificare il suo commercio estero è una decisione strategica e la competizione con gli Stati Uniti è a 360 gradi?
Nel 2024 gli Stati Uniti si sono scambiati con la Cina beni per 582 miliardi di dollari, accusando un deficit commerciale di 438 miliardi di dollari. In teoria dunque lo spazio per aumentare le importazioni cinesi dagli States c’è. Il freno però è rappresentato dalla competizione economica, tecnologica, ideologica e militare che alimenta la sfiducia tra le prime due economie del pianeta e complica un’intesa come la “Phase One” di cinque anni fa. Nel 2020 Pechino si era impegnata ad aumentare di 200 miliardi di dollari nei due anni successivi l’import dagli Stati Uniti. Difficile che possa spingersi di nuovo a tanto: gli Usa restano per la Cina il paese più importante (e più temibile), ma nel frattempo partner come il Brasile o l’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico li hanno parzialmente sostituiti.
Discorso diverso sulle terre rare. I 17 elementi indispensabili nell’industria hi tech e della difesa di cui la Cina ha il monopolio della produzione restano un’arma che Pechino può sfoderare in ogni momento, ma che ora è pronta a riporre, per favorire un accordo e continuare ad accedere ai ricchi mercati Usa.
I nodi
I dazi per Washington servono non solo a riequilibrare il deficit commerciale, ma anche a rimpinguare il bilancio federale e a provare a rimpatriare un po’ di manifattura dalla “fabbrica del mondo”. E, se anche venissero cancellate le super tariffs, la cui sospensione scadrà il 12 agosto, quelle attualmente in vigore – circa il 30 per cento sulle importazioni dalla Cina – restano comunque elevate, tali da costringere alla chiusura tante aziende che hanno margini di profitto ridottissimi, soprattutto nelle roccaforti industriali del Guangdong e dello Zhejiang.
I nodi da sciogliere restano tanti. A cominciare dalla volontà dal retrogusto coloniale espressa più volte da Trump di voler «aprire la Cina». Un paese che ha i settori strategici dominati dallo stato e chiusi agli stranieri e che piò tollerare solo aperture limitate, dovendo accontentare le sue imprese, che non hanno ancora digerito la gestione del governo dell’emergenza pandemica. Intanto però il dialogo è finalmente ripartito.
© Riproduzione riservata