I rapporti commerciali tra Cina e Stati Uniti nel mondo post-Donald Trump vengono descritti col termine “decoupling”, ossia “disaccoppiamento”, che si riferisce al recente tentativo di disarticolare le catene del valore che legano Washington e Pechino. Il fenomeno, tuttavia, può essere ricondotto anche a preesistenti preoccupazioni statunitensi circa l’ascesa economica cinese.

Proprio Donald Trump aveva cavalcato l’idea che l’economia statunitense fosse preda del resto del mondo, Cina in primis. La riforma dell’accordo di libero scambio con Canada e Messico in ottica anticinese, il ritiro americano dal partenariato trans-pacifico, il Quad come strumento di contenimento di Pechino, sono gli esempi più eclatanti di come l’amministrazione di The Donald fosse orientata in particolar modo a contrastare la potenza asiatica, considerata il principale avversario statunitense.

In realtà, alle relazioni sino-americane soggiacciono tensioni sin dal decennio precedente l’elezione dell’ex presidente americano: già dai primi anni Duemila, diversi economisti sostenevano che l’America fosse vittima degli effetti del deprezzamento del renminbi e del conseguente squilibrio nella bilancia dei pagamenti verso la Repubblica popolare cinese (Rpc). Nel 2015, il presidente Obama associava inoltre la strategia statunitense per diventare la potenza economica e commerciale egemone nell’Asia-Pacifico con la necessità di «scrivere le regole prima che fosse la Cina a farlo». Il Pivot-to-Asia è stato il nome dato a questa strategia di ribilanciamento, la Trans-Pacific partnership il tentativo di concretizzarla nella dimensione economico-commerciale.

Non è stata, dunque, una totale inversione di rotta quella dell’amministrazione Trump che ha patrocinato una politica commerciale aggressiva verso la Rpc tanto da meritarsi l’appellativo di “trade war”. L’Accordo fase uno del 2020 ha poi riportato una parvenza di normalità nei rapporti commerciali bilaterali. Ciononostante, il successore di Donald Trump, Joe Biden, nel febbraio 2021 firmava un ordine esecutivo mirato alla creazione di catene del valore per terre rare, microchip e prodotti biomedici al di fuori della sfera di influenza del Dragone cinese. Lo stesso approccio nel 2022 ha trovato una riconferma nell’Indo-Pacific economic framework (Ipef), che ha suscitato reazioni avverse da parte della Cina che ha intensificato le attività militari attorno a Taiwan.

Taipei e microchip

L’isola considerata provincia ribelle da Pechino rappresenta infatti un dossier estremamente caldo nei rapporti Cina-Usa, anche per quel che concerne l’integrazione economica regionale. D’altronde, Biden non si è discostato sotto questo punto di vista dal proprio predecessore, mantenendo una relazione fitta e densa con Taiwan, nonostante gli avvertimenti cinesi, e si è finanche spinto nel maggio 2022 a menzionare la possibilità di difesa di Taipei in caso di invasione cinese dell’isola. Questa detiene infatti diversi primati produttivi relativi alla produzione dei più avanzati microchip tuttora esistenti, elemento che aumenta la sua importanza dal punto di vista dell’integrazione economica regionale.

Quello dei microchip è un settore in cui il disaccoppiamento economico tra la Cina e gli Stati Uniti assume contorni sfocati, nonostante nel febbraio 2022 il presidente americano abbia firmato un ordine esecutivo mirato alla creazione di catene produttive al di fuori della sfera di influenza di Pechino per quel che riguarda terre rare, microchip e prodotti biomedici. A poco è infatti valsa questa iniziativa statunitense, se non a introdursi all’interno di un contesto in cui la Cina, già col suo “Made in China 2025”, ha avviato il proprio processo di riduzione della dipendenza dall’estero per determinati settori, tra i quali quelli nel mirino statunitense.

Washington ha rinnovato la sua intenzione di assicurarsi catene produttive “sicure” attraverso l’Ipef, ma Taipei non è stata ancora invitata a farne parte. D’altronde, i rapporti economici tra i due paesi sono “regolati” da un me morandum of understanding del novembre del 2020, all’interno del quale è stato previsto un Economic prosperity partnership dialogue i cui obiettivi sono pressappoco sovrapponibili con quelli del framework previsto per la regione.

Partnership e interessi

Si potrebbe pensare che due siano le impalcature economiche che l’America vuole, una per la regione e una per Taiwan, perché due sono le esigenze da soddisfare: mantenere la parvenza di rispetto della One China policy e riscrivere le regole del commercio regionale per rispondere alle sfide poste dalla Cina. Queste ultime sono tuttavia diverse rispetto a quelle che l’amministrazione Obama provò a mettere nero su bianco attraverso la Trans-Pacific partnership (Tpp) per cui si sono resi necessari nuovi strumenti.

L’Ipef è stato subito salutato con favore dai tredici paesi firmatari della sua dichiarazione, tra cui sono presenti sette stati su dieci membri totali dell’Asean, tutti i quattro partecipanti del Quad, Nuova Zelanda e Corea del sud.

Australia, Brunei, Giappone, Malesia, Nuova Zelanda, Singapore e Vietnam attualmente fanno parte di tutte le iniziative commerciali regionali: Comprehensive and progressive Trans-Pacific partnership (Cptpp), Regional comprehensive economic partnership (Rcep) e Ipef. Corea del sud, Filippine, Indonesia e Tailandia, invece, fanno attualmente parte solo di Rcep e Ipef. Tuttavia, Bangkok e Seul hanno manifestato il proprio interesse ad avviare una procedura di adesione alla Cptpp.

Nel 2012, quando le negoziazioni per la Rcep prendevano piede, molti analisti videro in quest’ultima il tentativo cinese di opporsi alla Tpp. Col senno di poi, appare evidente come sia impossibile ad oggi catalogare le varie iniziative regionali in blocchi separati e distinti. Quando la rappresentante per il commercio americano (Ustr) Katherina Tai ha recentemente affermato che le aree di libero scambio hanno rappresentato «un danno per l’economia americana», ha incluso indirettamente anche la (Cp)tpp, un tempo caposaldo delle iniziative economiche e commerciali degli Stati Uniti nell’Indo-Pacifico.

Sempre Tai, in un’intervista del 2021, aveva utilizzato i termini «recoupling» e «coesistenza duratura» in merito ai rapporti sino-americani.

Commercio continuo

Che l’ex presidente Donald Trump avesse alzato i toni diplomatici nei confronti di Pechino è indubbio; quello che tuttavia rimane fortemente discutibile sono gli effetti di questi toni sui rapporti bilaterali. Il commercio tra le due superpotenze non si è mai arrestato. Nemmeno l’imposizione unilaterale di dazi da parte di Washington nel 2019 ci riuscì.

La crisi pandemica ha portato a una drastica diminuzione degli scambi commerciali, ma in assenza di un solido controfattuale non ci è dato sapere quanto di questo sarebbe diminuito effettivamente, o al contrario aumentato, dopo l’Accordo fase uno, salutato da Trump come una grande vittoria diplomatica americana. Nemmeno l’iscrizione nella lista nera di determinate aziende, come la Huawei, sempre ad opera della scorsa amministrazione, ha danneggiato irrevocabilmente il commercio tra i due paesi.

La stretta americana intorno a compagnie cinesi non si è tramutata in maniera omogenea in un ricollocamento delle imprese su suolo statunitense. Molte di queste hanno delocalizzato le proprie filiali cinesi nel sudest asiatico, la stessa zona con il quale la Cina ha formato un’area di libero scambio, entrata ufficialmente in vigore nel 2021.

È certamente innegabile che le prime due economie del mondo siano entrate ormai da decenni in una fase di competizione serrata. Tuttavia, il loro grado di integrazione economica rende le misure come quelle adottate durante la fase più acuta della trade war di complicata e non lineare attuazione, piuttosto che fasi di un’efficace strategia di logoramento anticinese.

Al contrario, è discutibile quale sia l’ampiezza e l’effetto di tale competizione: il commercio internazionale sperimenta da decenni un processo di deglobalizzazione di cui il decoupling Cina-Usa parrebbe essere più un elemento antitetico e a tratti anacronistico, piuttosto che naturale e spontaneo. Infatti, il fenomeno di riduzione delle catene globali del valore, incentivato dalla crisi pandemica, non sembrerebbe essere diretto a una netta divisione tra blocchi o a produrre l’autarchia nazionale, bensì sembrerebbe determinare processi di regionalizzazione che prendono forma nella dimensione economica attraverso, soprattutto, le aree di libero scambio.

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