«La Cina è in un momento del suo sviluppo in cui le opportunità strategiche, i rischi e le sfide sono concomitanti e aumentano le incertezze e i fattori imprevisti, e deve quindi essere pronta a resistere a forti venti, acque agitate e persino tempeste pericolose». Così il documento approvato dal secondo plenum del XX comitato centrale che ha preparato le liănghuì, le “due sessioni”, della Conferenza politica consultiva del popolo cinese (Cpcpc) e dell’Assemblea nazionale del popolo (Anp), che si aprono a Pechino rispettivamente oggi e domani.

Oltre a esprimere pareri e scrivere leggi, nelle prossime due settimane la Cpcpc e l’Anp, con i loro oltre 5.000 delegati che affolleranno la Grande sala del popolo, concluderanno il rinnovamento della leadership iniziato nell’ottobre scorso, assegnando ruoli di governo a decine di funzionari promossi dal XX congresso.

Il nuovo esecutivo

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Tra i più importanti quello di premier, che, salvo clamorose sorprese, sarà attribuito a Li Qiang (numero due della nomenklatura comunista) e dei suoi quattro vice, che dovrebbero essere He Lifeng, l’economista che negli ultimi cinque anni ha presieduto la Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma, che sarà il vice premier esecutivo, responsabile della politica macroeconomica; Ding Xuexiang, ex segretario di Xi con background nel settore della ricerca sui materiali, centrale per l’innovazione; l’ex segretario della provincia dello Shaanxi ed esperto di tecnologia Liu Guozhong; e Zhang Guoqing, ex direttore esecutivo di Norinco, colosso di stato del settore difesa-aerospazio.

Un gabinetto di lealisti, funzionari che hanno lavorato per anni con Xi, ma con elevate competenze, per affrontare la priorità assoluta dopo tre anni di rallentamento che ha acuito le disuguaglianze sociali: lo sviluppo economico, per favorire la “stabilità”.

La Lega della gioventù comunista, la “corrente” del partito dell’ex presidente Hu Jintao, perde le ultime due poltrone che contano, con l’abbandono (per raggiunto limite di età) del premier Li Keqiang e del suo vice Hu Chunhua (quest’ultimo, da papabile premier, è infine risultato escluso dai 24 membri dell’ufficio politico).

Sarà un “governo del presidente” circondato da yes men? L’abbandono, da tempo, della pratica della leadership collettiva in seno al comitato permanente dell’ufficio politico lascerebbe pensare di sì. Eppure Xi, il cui tallone d’Achille è l’economia, ha bisogno dell’apporto attivo di questi tecnocrati, per far ripartire la crescita e favorire lo sviluppo tecnologico.

D’altro canto i poteri e le competenze del Consiglio di stato (il governo) saranno presto ridotti. Le liănghuì esamineranno infatti un progetto di riforma delle istituzioni del partito e dello stato di cui non sono ancora noti i dettagli ma che – secondo i media ufficiali – «servirà a razionalizzare le strutture di potere-responsabilità all’interno e tra le istituzioni statali, in modo da soddisfare le esigenze dello sviluppo economico e sociale della Cina nella nuova era».

Tradotto: meno potere al governo, e ancora di più al partito comunista cinese, in linea con il proclama di Xi del 18 ottobre 2017: «Il governo, l’esercito, la società e le scuole, da nord a sud, da levante a ponente, il partito dirige tutto».

Finanza e ricerca strategiche

Alla vigilia della sessione annuale dell’Anp, Xi (che dal parlamento cinese otterrà ufficialmente il terzo mandato presidenziale) ha anticipato che il partito varerà un piano per «approfondire le riforme strutturali» anche nel settore finanziario ed esercitare un maggiore controllo sulla scienza e la tecnologia, aree strategiche per lo sviluppo del paese, nelle quale gli Stati Uniti stanno provando a rallentare la rincorsa della Cina con il protezionismo e le sanzioni.

Domani il premier leggerà il “rapporto sul lavoro del governo” e annuncerà l’obiettivo del prodotto interno lordo per quest’anno, che dovrebbe essere intorno al 5,5 per cento, in linea con quanto previsto da Morgan Stanley, Goldman Sachs e Standard Chartered.

Si tratta dello stesso traguardo inseguito ma clamorosamente mancato nel 2022, quando il Pil si è fermato al +3 per cento, a causa delle chiusure anti-Covid, tra cui i 71 giorni di lockdown duro a Shanghai.

Anche quest’anno i fattori avversi non mancano, legati soprattutto alla debolezza della domanda (interna e dall’estero), alle tensioni geopolitiche (Ucraina e Taiwan su tutte) e alla crisi del settore immobiliare (per decenni barometro dell’economia nazionale), che induce i cinesi ad accumulare risparmi e spendere meno.

E c’è l’urgenza di convincere gli investitori internazionali a continuare a scommettere sulla Cina, in una fase nella quale mentre Starbucks annuncia che aprirà una nuova caffetteria ogni nove ore, portandole a 9.000 nel 2025, altre multinazionali stanno spostando o programmando di trasferire la produzione in Asia meridionale o nel Sud-est asiatico, che per molte presentano ormai opportunità più favorevoli rispetto alla Cina.

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