«Qualsiasi tentativo di interrompere il flusso di capitali, tecnologie, prodotti, industrie e persone tra le economie, e di riportare le acque dell’oceano in laghi e ruscelli isolati è destinato a fallire, perché va contro la corrente della storia». Era il 17 gennaio 2017 quando, dal palco del World economic forum, Xi Jinping si produsse nella più appassionata perorazione in favore della globalizzazione mai pronunciata da un leader comunista.

Un discorso – tre giorni prima dell’ingresso di Donald Trump alla Casa Bianca – per convincere il gotha dell’economia mondiale riunito a Davos che il “socialismo di mercato” avrebbe continuato ad aprirsi anche nella tempesta che stava per arrivare. Ma Xi non poteva immaginare che in quei marosi, poche settimane dopo che The Donald aveva profetato alle Nazioni unite che «il futuro non appartiene ai globalisti, ma ai patrioti», dalla capitale cinese dell’auto sul Fiume azzurro, sarebbe arrivato il cigno nero del Covid-19.

Un anno dopo l’esplosione a Wuhan del nuovo coronavirus, il Partito ha preso atto che l’onda lunga di quella globalizzazione che nel ventennio Jiang Zemin-Hu Jintao (1989-2012) aveva trasformato la Repubblica popolare nella “fabbrica del mondo” si è esaurita, per la guerra commerciale e perché le chiusure per contrastare la pandemia hanno svelato all’occidente l’irrazionalità di catene globali di fornitura (Gsc) lunghe e frammentate.

Produzione e commercio

Il principale partner commerciale di 130 paesi (con il 13,3 per cento dell’export e l’11 per cento dell’import globali), la nazione che con il piano “Made in China 2025” ha rimesso al centro del suo sviluppo la (nuova) manifattura, e che punta a diventare uno dei pilastri di un ordine mondiale multipolare, ha reagito con la “doppia circolazione” (shuāng xúnhuán), una strategia che segna un cambio di traiettoria. Del resto, le inversioni di rotta sembrano appartenere al Dna di un Partito che, in pochi decenni, ha imposto ai cinesi il Grande balzo in avanti e la Rivoluzione culturale sotto Mao, la stagione di Riforma e apertura di Deng e, con Xi Jinping, il ritorno al ruolo guida dello stato sull’economia e la società.

La “doppia circolazione”

La “doppia circolazione” è stata consacrata dalla leadership di Pechino inserendola nel XIV Piano quinquennale (2021-2025) approvato l’11 marzo scorso dall’Assemblea nazionale del popolo. Seguendo questa dottrina – ha chiarito Xi – la Cina dovrà «dar vita gradualmente a un nuovo modello di sviluppo nel quale la circolazione interna (nazionale, nda) svolga un ruolo dominante». Si tratta di una svolta epocale: per sostenere la crescita, più che alla domanda dall’estero e agli investimenti pubblici, la Cina d’ora in avanti guarderà sempre di più dentro sé stessa: ai suoi 1,4 miliardi di consumatori, alla sua innovazione autoctona (zìzhŭ chuàngxīn) e ai suoi mercati dei capitali (Shanghai e Shenzhen, non più solo Hong Kong).

La catastrofe ambientale e gli squilibri sociali ed economici tra le diverse aree del paese avevano già reso indifferibile l’archiviazione del vecchio sistema, per passare a quello che viene pubblicizzato come “sviluppo di qualità” (zhìliàng fāzhăn), ma sono stati il progressivo deterioramento delle relazioni con gli Stati uniti (trasformatisi da partner in avversari) e il Covid-19 a innescare la svolta.

Nel corso di un forum organizzato nel luglio scorso a Pechino dal Center for China and globalization (Ccg), l’ex vice ministro delle Finanze (dal 2010 al 2018) Zhu Guangyao ha sostenuto che «la globalizzazione è entrata in una nuova fase, caratterizzata da quattro sfide principali: problemi ambientali; tensioni geopolitiche; crisi finanziarie; cyberattacchi».

Xie Fuzhan, ha descritto la “doppia circolazione” come una mossa difensiva: una «risposta al protezionismo, all’unilateralismo e alle tendenze anti globalizzazione». In un articolo intitolato “Partners for the Times” (China-Cee Institute, settembre 2020), il presidente dell’Accademia cinese di scienze sociali (Cass) ha spiegato che «alcuni politici» (statunitensi, nda) hanno colto l’opportunità della pandemia «per promuovere il concetto di “decoupling economico” e forzare il trasferimento delle catene industriali in palese inosservanza delle leggi economiche, delle norme internazionali e di un ordine giusto, facendo entrare la globalizzazione in un percorso accidentato, aumentando ulteriormente l’incertezza e l’instabilità dello sviluppo globale e minacciando la sicurezza delle catene industriali».

Xi Jinping e compagni sono convinti che queste disfunzioni, accompagnate dalle relative tensioni geopolitiche Pechino-Washington, non siano transitorie, ma destinate ad accompagnare l’ascesa della Cina.

Attualmente la Rpc ha un Pil pro capite pari a 10mila dollari e 400 milioni di abitanti considerati “classe media”. Secondo una ricerca del Development Research Centre del Consiglio di stato (il governo), nel 2024 il Pil pro capite ammonterà a 14mila dollari e, nel 2032, il prodotto interno lordo degli Stati Uniti sarà superato da quello della Cina, dove 560 milioni di persone apparterranno al ceto medio. Basterà ad assorbire la colossale produzione industriale nazionale?

Lo sviluppo della Cina degli ultimi decenni si è basato su uno schema elementare e condizioni irripetibili: sovrabbondanza di manodopera giovane (a basso costo); iper investimenti; trasferimento di tecnologia; colossali surplus commerciali. Il rovescio della medaglia è stato caratterizzato da scarsa produttività; enormi gap di sviluppo tra le diverse zone del paese; cessione di sovranità alle multinazionali straniere; catastrofe ecologica. Secondo Wang Yiming - ex vice presidente Development Research Centre - ora è necessario «ridurre le distorsioni del mercato e distribuire il lavoro, la terra e le risorse finanziarie in aree più produttive». Per Wang andrebbero liberalizzati gli spostamenti interni della popolazione rallentati dal vecchio sistema di registrazione della residenza (hùkŏu), nonché la disponibilità della terra, permettendo direttamente ai contadini di venderla ai costruttori. E Pechino dovrebbe aprire maggiormente il suo mercato alla “circolazione esterna”, convincendo gli stranieri a investire in Cina, nonostante l’ostilità Usa e le tentazioni di decoupling.

L’importanza della Rcep

Per questo Pechino prevede di abbassare i dazi dal 7,5 per cento al 5 per cento nei prossimi 2-4 anni, mentre sotto Xi sono sono state istituite 21 nuove aree di libero scambio pilota dove sperimentare nuovi hub industriali. Con gli investimenti e l’export cinese sempre più scrutinati negli Stati Uniti e in Europa, l’Asia sta rapidamente diventando il cuore di una globalizzazione in scala ridotta imperniata sul gigante cinese. Il 15 novembre scorso da Cina, Giappone, Corea del sud (è la prima volta dal dopoguerra che Tokyo e Seoul entrano assieme in una Fta), Australia, Nuova Zelanda, assieme ai dieci membri dell’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico (Asean), hanno istituito la Regional comprehensive economic partnership (Rcep), un’area di libero scambio che rappresenta il 30 per cento del Pil e il 27,4 per cento del commercio mondiali. E, secondo gli obiettivi di lungo termine fino al 2035 varati dal governo, Pechino cercherà di costruire anche un’area di libero scambio trilaterale con Tokyo e Seoul (le due economie più sviluppate dell’Asia orientale).

Secondo Song Hong della Cass, questa continua apertura, sempre più “regionale”, della Cina riconfigurerà il commercio mondiale e gli scenari economici in tre direzioni. Anzitutto le produzioni a più alta intensità di lavoro verranno trasferite progressivamente dalla Cina ai paesi vicini, soprattutto nel sudest asiatico e lungo la via della Seta. In secondo luogo – ha sostenuto Song in Reinventing Global Trade, pubblicato su East Asia Forum Quarterly – la Cina, diventata nel 2020 il primo ricettore mondiale di investimenti esteri diretti, «cercherà di attirare più Ied nelle industrie hi-tech, che rafforzeranno le reti di produzione regionali asiatiche». Ultimo, non in ordine d’importanza, la Cina «rappresenta un enorme mercato per lo sviluppo e l’integrazione di altri paesi asiatici». Nella seconda metà del secolo scorso il Giappone, la Corea del sud, Taiwan e Singapore hanno costruito le loro economie guardando al mercato statunitense. Ora, confidano a Pechino, il nuovo faro dell’Asia è la Cina.

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