Nel piano di pace non c’è la Cisgiordania, dove i minori palestinesi continuano a essere uccisi

L’accordo di pace firmato Trump-Nethanyahu non sembra contemplare in alcun modo il futuro della Cisgiordania, la vera ambizione della parte più estremista del governo israeliano rappresentata dai ministri Ben Gvir e Bezalel Smotrich che rappresentano i coloni e sognano l’annessione dei territori palestinesi allo Stato ebraico. La Cisgiordania è un pugno nello stomaco che ricorda, a ogni passo, come qui la vita non sia una linea retta ma una curva di paura, resistenza e recriminazione. Il paese respira a fatica, e i territori occupati diventano un test di coraggio, un simbolo evidente di una pulizia etnica più silenziosa e lenta ma comunque estremamente invasiva e dolorosa per chi la subisce da molto tempo. Il Medio Oriente neocoloniale del piano Trump Passeggiate terrorizzanti A Hebron, con l’imbrunire, la tensione sale e il clima che si respira è pesantissimo. Alle sei del pomeriggio l’esercito israeliano circonda le strade del centro, proprio vicino alla grande moschea, luogo di preghiera per i musulmani. Per i cittadini palestinesi scatta l’ora del coprifuoco, i negozi devono chiudere, le persone devono indietreggiare per lasciare spazio alla passeggiata dei coloni che devono rincasare in quello che è a tutti gli effetti un insediamento illegale dentro il cuore della città. I bambini si avvicinano ai soldati, li guardano, li temono, un passo falso può costare la vita. È una scena di normale quotidianità militarizzata. «Quando li sente avvicinarsi mio figlio si fa la pipì addosso», mi dice un commerciante mentre abbassa la saracinesca del suo negozio di souvenir. La presenza dell’esercito è il terrore dei bambini palestinesi, una presenza costante che li fa crescere troppo in fretta. Ne hanno paura più di qualsiasi altra cosa. Sventolano le bandiere bianche e azzurre con la stella di Davide issata sulle case, segno vivo e dolente dell’occupazione, non solo fisica ma anche simbolica. Salendo sui tetti delle case si può vedere il cimitero dei cittadini palestinesi. Le lapidi, le scritte in arabo. In questo luogo di preghiera però i palestinesi non hanno diritto all’accesso, non hanno diritto di vegliare i loro cari perché quel fazzoletto di terra è stato occupato dello stato ebraico. È un muro di cemento ad evidenziarlo. I pochissimi palestinesi che ci vivono ancora dentro all’insediamento hanno le porte di casa con la stella di Davide incisa nel legno e un soldato a delimitare il loro diritto al movimento. Amir Tibon: «Annettere la West Bank assorbendo milioni di palestinesi sarà il nostro suicidio» In Cisgiordania, il tempo sembra scandito non solo dal sole e dal traffico, ma dai passaggi obbligati che separano città palestinesi da insediamenti e da Israele, i check-point sono ormai una geografia di confine interiorizzata. Che siano posti di blocco fissi o controlli mobili che cambiano continuamente, riescono ad impedire ai palestinesi di potersi muovere liberamente per andare da una città all’altra o anche dentro ad una stessa, possono volerci anche quattro o cinque ore per percorrere pochissimi kilometri. La destabilizzazione della normalità è una delle strategie per ridurre la popolazione allo stremo delle forze. Nelle città della Cisgiordania occupata non è garantito il diritto allo studio perché non puoi sapere se l’insegnante verrà fermata o meno al check-point, non hai diritto alla casa, perché non puoi sapere se da un giorno all’altro i coloni entreranno e la dichiareranno terra loro, legittimando morte e distruzione. Le ferite delle famiglie riguardano cari finiti in prigione senza un giusto processo o familiari uccisi dalle violenze dell’esercito. Tulkarem insieme a Jenin sono città simbolo della resistenza palestinese. Generazioni di ragazzi sono cresciute dentro ai campi profughi costruiti dalle Nazioni Unite dopo la Nakba, luoghi presi particolarmente di mira dall’Idf, sottoposti a numerosi raid e assedi. L’esercito chiude l’ingresso al campo e compie vere e proprie incursioni violente in case e negozi, radendo al suolo tutto ed effettuando arresti in massa. Hamas prende tempo e si divide in tre fazioni. «La lotta non è finita» La sorte dei minori Il dato più terribile riguarda i minori. I dati della ong Oxfam e Nazioni Unite parlano di più di mille ragazzini uccisi nella Cisgiordania occupata dal 2022 ad oggi, compresa Gerusalemme est. Basta entrare nel cuore delle famiglie palestinesi per accorgersi di quanto sia facile trovare una storia di qualche figlio, fratello, cugino ucciso. La casa di Kais Nashrallah è circondata da alberi di limone e fiori, la sorellina piccola gioca nel cortile mentre il padre si sofferma su un video del cellulare. Gira in rete, è il giorno in cui suo figlio Kais di 15 anni è stato ucciso da un soldato dell’Idf che gli ha sparato dritto nel petto mentre camminava in strada. La gigantografia di Kais è proprio all’ingresso di casa sua e il padre la bacia, la accarezza, ha conservato tutto di Kais, la sua cameretta ha ancora il letto fatto, le sue cose in giro. Sembra un santuario. Il padre di Kais è un paramedico e di ragazzini uccisi negli ultimi anni ne ha visti tanti. «Mi consola che almeno mio figlio l’ho ritrovato tutto intero, di molti ragazzi ho trovato solo i resti, corpi non più integri. Invece Kais ho potuto pulirlo personalmente, lavarlo, baciarlo, piangerlo e seppellirlo io stesso». La dignità di quest’uomo non lascia spazio né alla commozione né alla rabbia, solo un profondo senso di ingiustizia. Di Kais ha conservato non solo tutti gli oggetti ma anche gli ultimi momenti, fotogrammi del suo corpo martoriato sulla barella dell’obitorio ripulito con cura da un padre che ha trovato in quel gesto un ultimo atto di amore verso il figlio. «Non ho mai saputo perché mio figlio è stato ucciso né il nome di chi lo ha ucciso, nessuno ha mai pagato, non c’è mai stato un processo per questa morte cosi profondamente ingiusta. Mio figlio era solo un bambino, un ragazzo dolce e curioso. Mi accompagnava al lavoro, sognava anche lui di fare il paramedico da grande». Gli intellettuali palestinesi: «L’occupazione non finirà» L’impossibilità di ottenere giustizia è una delle grandi ferite delle famiglie palestinesi. Essere uccisi è semplicemente un elemento che tieni in considerazione, qualcosa che può accadere, basta uscire di casa il giorno sbagliato o incontrare un soldato che ha voglia di ammazzarti. «Pensavo di essere pronto per la morte di Kais e invece no. Non lo ero. Era il mio mondo, la mia vita». Il padre gira per la casa vuoto tappezzata dalle foto del figlio, la sorellina piccola si avvicina alle foto e le bacia anche lei. La Cisgiordania occupata è spesso in ombra rispetto alle atrocità quotidiane che avvengono nella striscia ma è uno dei luoghi più ambiti dallo stato ebraico. Un nuovo rapporto Oxfam denuncia come la povertà in questa zona negli ultimi anni è aumentata dal 12 al 18 per cento con un tasso di disoccupazione arrivato al 35 per cento. Oltre il 42 per cento del territorio è occupato da insediamenti israeliani e l’Ue è direttamente coinvolta in questa occupazione avendo scambi commerciali attivi con gli insediamenti dei coloni in Cisgiordania, Gerusalemme Est compresa. Israele continua ad attrarre investimenti esteri attraverso agevolazioni fiscali, sussidi, trattamenti preferenziali, affitti ribassati dei terreni e sovvenzioni. Un appello oggi firmato da numerosi associazioni italiane tra cui Amnesty ed Oxfam ne chiedono l’immediata sospensione.