Tra i palestinesi vittime dei coloni: «Ci farebbero fuori in una notte»

Bardala (Cisgiordania) – Yousef Besharat è un contadino palestinese di 47 anni che abita a Khirbet Makhoul, un minuscolo insediamento agricolo nel nord della Valle del Giordano, vicino al villaggio di Bardala sul limitare della Cisgiordania occupata. Ha qualche albero di olive, galline, pecore, capre e qualche asino bianco. Con lui vive la moglie Najia e dieci figli, cinque maschi e cinque femmine, oltre ad altre tre famiglie con cui sono imparentati. «Sabato scorso (l’ultimo sabato di ottobre, ndr) mio figlio Hussein, che ha 18 anni, stava portando un carico di letame in una zona dove abitualmente portavamo al pascolo le nostre greggi», racconta, indicando un terreno arido dall’altra parte della strada che affitta da un amico. «Un colono gli si è stagliato di fronte in sella di un quod, intimandogli di tornare indietro, e gli ha scattato una foto. Mezz’ora dopo è arrivato da noi l’esercito. Hanno buone relazioni con loro, in particolare con due soldati drusi che parlano anche arabo. Avevano quell’immagine sul telefonino: arrivavano in seguito a una loro segnalazione». La coerenza di Netanyahu, la cacciata di un popolo e il paese negato Gli ufficiali di Tzsahal sono arrivati nelle baracche in cui abitano Besharat e i suoi familiari, mettendole a soqquadro. Hanno informato Yousef che il terreno del suo amico, quello su cui il figlio stava depositando i fertilizzanti, a causa della guerra è stato dichiarato “zona militare chiusa”. Dichiarare una zona militare chiusa, «shetach zvaì sagur» nel lessico militare ebraico, è il modo con cui l’esercito rende una porzione di terreno off-limits, per poter espellere arbitrariamente qualsiasi presenza sgradita. «Ci siamo sempre andati», racconta Yousef, «e portavamo gli animali al pascolo in tutte le colline vicine». Con i soldati Yousef si è assunto le responsabilità dell’“invasione di campo” del figlio, approfittando del fatto che nella foto aveva il volto coperto con una kefiah. Sapeva, infatti, che cosa sarebbe venuto dopo. Gli agenti lo hanno portato alla stazione di polizia di Hemdat, un insediamento vicino, e lo hanno lasciato a terra con le mani legate e bendato per cinque ore. «Mi hanno preso a calci la schiena, colpito con il fucile, una soldatessa mi ha minacciato di urinarmi in faccia», racconta. «Non avrei mai pensato queste persone potessero giungere a tali livelli di odio». Yousef Besharat è un contadino palestinese di 47 anni che abita a Khirbet Makhoul, un minuscolo insediamento agricolo nel nord della Valle del Giordano - Foto Davide Lerner

[Missing Credit] Il colono Sofan dell’insediamento di Hemdat è il suo principale persecutore: ama investire le sue pecore per sfogo. Yousef prova a parlarci con qualche parola d’ebraico imparata prima del 2003, quando per qualche anno ha lavorato in un insediamento israeliano. Le visite intimidatorie dei giovani coloni in quad, spesso armati di mitra, oppure a piedi impugnando bastoni, i capi di bestiame che vengono investiti, il coordinamento più stretto fra coloni e soldati, il cerchio dei terreni off limits che si chiude attorno alle loro case, è tutto un meccanismo per convincerli a fare i bagagli ed andarsene via. Al valico di Kerem Shalom Israele non allenta la presa: a Gaza aiuti con il contagocce L’anello più debole Le comunità palestinesi e beduine nella Valle del Giordano e nel resto dell’area C, quella sotto completo controllo israeliano, sono sempre state le più esposte alle malversazioni dei coloni e alle restrizioni amministrative delle autorità militari. Ma la guerra di Gaza ha portato con sé una stagione di violenze e trasformazioni senza precedenti: sono decine le piccole comunità che, molestate dai residenti degli insediamenti e penalizzate dall’amministrazione israeliana, sono già state cancellate. Percorrendo la strada 60 da Gerusalemme verso il nord della Cisgiordania, così come la parallela 458, la Allon road, si vedono invece i numerosissimi nuovi insediamenti illegali in cima alle colline. Case, prefabbricati, o anche una singola tenda con la bandiera israeliana. In alcuni casi, come in quello di Sde Yonatan vicino al villaggio palestinese di Dayr Dibwan, sono indicati da cartelli stradali, probabilmente fabbricati dagli stessi coloni. Nuove strade sterrate li collegano alle arterie principali, sulla cui estensione si vedono lavorare, in alcuni snodi, decine di ruspe israeliane. Come in una corsa contro il tempo, prima che i coloni dovessero venire estromessi dal governo e tornasse a giocare un ruolo la pressione internazionale. Prima che la congiuntura astrale che ha portato questa stagione di quasi totale anarchia possa rientrare. Sharaf Barghouti: «Israele ci vuole deboli e divisi. Perciò non libera mio padre» Tempo dei miracoli L’aggressiva avanzata della itiashvut, il progetto di insediamento, balza all’occhio anche in altri modi. Sui lati della strada capita di vedere interi campi d’ulivi abbattuti per proteggere la carreggiata e nuove barriere di filo spinato. All’ingresso di quasi tutti i villaggi palestinesi è comparsa una staccionata gialla pronta ad essere chiusa a discrezione dell’Idf. Sulle fermate degli autobus sventolano le bandiere blue con al centro il Beit Hamikdash, il tempio antico che gli estremisti vorrebbero ricostruire al posto della Spianata delle Moschee di Gerusalemme. È un simbolo di fondamentalismo messianico. La scritta recita il verso biblico dell’Esodo «Ve assù li mikdash», e mi fecero un santuario, «perché ci potessimo dimorare». Sui blocchi di cemento messi dall’esercito in giro per la regione si vede spesso un profilo blu della Palestina storica con dietro la stella di Davide, una dichiarazione della volontà di renderla tutta israeliana. I cartelli stradali, tradizionalmente trilingue, in ebraico, arabo e inglese, presentano spesso la dicitura araba vandalizzata con lo spray, e non più leggibile. Negli insediamenti si costruisce. Dal 7 ottobre 2023 circa 30.000 unità abitative sono avanzate nel proprio iter di approvazione, delle quali una parte sono già state completate. Gli esperti lo considerano un ritmo senza precedenti, complice il fatto che durante la guerra moltissimi avvenimenti che avrebbero fatto scalpore passano inosservati. Orit Struck, ministra del governo Netanyahu in quota del partito estremista “Potere Ebraico”, ha definito questo periodo «il tempo dei miracoli». Vuol dire che trasformazioni che il movimento dei coloni sperava di vedere materializzarsi nell’arco dei prossimi decenni stanno diventando realtà in poco più di due anni. Il ministero degli Insediamenti e delle Missioni Nazionali, che fa capo a Struck, fornisce ai coloni droni e veicoli fuoristrada. Gli estremisti, sempre più attrezzati, godono anche di una presenza maggiore nelle fila dei militari: i riservisti che proteggono gli avamposti agricoli vengono spesso dalle loro stesse fila. In questa stagione, quella della raccolta delle olive, si moltiplicano le aggressioni malgrado la cosiddetta “presenza protettiva” di attivisti israeliani e internazionali. Il piano crudele delle colonie israeliane che cancella l’idea dello stato palestinese “Kullu mamnua”, tutto vietato «Kullu mamnua», è tutto vietato, ripete Yousef Besharat. Khirbet Makhoul prima del 2013 contava diverse decine di famiglie. Fu in quell’anno che l’esercito per la prima volta dichiarò il terreno zona militare chiusa, costringendolo a ricorrere, con l’aiuto dell’avvocato arabo-israeliano di Umm al-Fahm Tawfiq Jabareen, alla Corte Suprema israeliana. «Sono riuscito a mantenere una presenza minima, ma il fatto che in molti se ne siano andati, ci ha reso ancora più vulnerabili», dice. Ora, dopo il 7 ottobre, la comunità rischia di scomparire. Non avendo accesso ai pascoli, Yousef ha ridotto il numero di pecore da 400 a 280, e fa cassa vendendo gli agnellini neonati. Sul lavoro agricolo pesa la mancanza di acqua: non gli è sufficiente quella che acquista dall’Autorità Palestinese. E Mekorot, il sistema idrico israeliano, bypassa i villaggi palestinesi. Come tanti altri agricoltori in queste zone, Yousef è costretto a provare ad attaccarsi illegalmente alle tubature del sistema israeliano. Ma quando, periodicamente, gli israeliani lo scoprono, usano il fatto come pretesto per nuove iniziative punitive. Anche i pali dell’elettricità gli passano vicino senza che lui si possa collegare: al villaggio si affidano ad un pannello solare. «Prima della guerra la vita era molto più facile, ora se potessero farci fuori tutti in una notte, lo farebbero ben volentieri», racconta Yousef. «Dal 7 ottobre di notte non dormiamo, qualcuno deve stare sempre di guardia, coloni e soldati sono diventati sempre più aggressivi». Alla domanda se abbia l’impressione che la popolarità di Hamas sia in crescita nella Cisgiordania, risponde: «Qui non ne parliamo, perché se qui dici la parola Hamas, arrivano con i bulldozer e ti spazzano via. Basterebbe una foto o un immagine sbagliata sul telefonino».