«Se ci sono chiari segnali che il governo afghano non resisterà a lungo contro i talebani senza il sostegno degli Stati Uniti perché l’amministrazione Biden sta insistendo con il ritiro dall’Afghanistan?» si chiede il New Yorker, voce critica del mondo liberal, per conto di un’America sempre più a disagio e smarrita di fronte a una ritirata militare disonorevole e al ritorno dei talebani e del feudalesimo connesso alla loro interpretazione fondamentalista della sharia. Una legge che lapida gli adulteri, taglia le mani ai ladri, vieta musica, radio, tv e il gioco del calcio e impedisce alle bambine di andare a scuola dopo i dieci anni e alle donne di partecipare a qualsiasi ambito di vita sociale e di decidere del proprio destino. Che fine faranno i diritti civili, i diritti delle minoranze in Afghanistan dopo 20 anni di guerra senza fine per “combattere il terrorismo” ed “esportare la democrazia occidentale”? E che fine faranno gli afghani che hanno creduto alle nostre vane promesse di libertà e non sono riusciti a fuggire?

I talebani non sono cambiati e rivendicano di riportare il paese nel feudalesimo tecnologico dei kalashnikov esattamente dove lo avevano lasciato quando furono costretti a fuggire in Pakistan o a nascondersi in incognito nelle aree rurali del paese, mai davvero sotto controllo del governo centrale di Kabul. Il paese era diviso in due: le campagne sotto i talebani, le città al governo di Kabul, alleato degli occidentali. Partiti gli occidentali il castello di carta è caduto.

Con la vittoria militare in vista perché i talebani, gli studenti coranici formati nella madrasse (le scuole coraniche) di Peshawar in Pakistan, padrino del movimento fondamentalista e anti-occidentale, dovrebbero accettare di limitare il loro potere e dividerlo con i “collaborazionisti” accettando elezioni libere a Kabul? Gino Strada, che prima di lasciarci a 73 anni, aveva vissuto sette anni in Afghanistan a curare vite umane senza distinzioni, nel suo ultimo articolo pubblicato ieri sulla Stampa ha scritto che non lo sorprendeva la fine di «quella guerra di aggressione iniziata all’indomani dell’attacco dell’11 settembre, dagli Stati Uniti a cui si sono accodati tutti i paesi occidentali».

Che ne sarà di loro

Eppure oggi ci chiediamo, di fronte al fallimento militare occidentale, che fine farà il paese che ha inghiottito mille miliardi di dollari di aiuti americani senza aver costruito alcuna base solida per la crescita economica e le libertà individuali dei cittadini afghani. I talebani riusciranno a convincere i giovani afghani (la maggioranza della popolazione) a rinunciare alla modernità, al cellulare, alla musica, alla libertà individuale o li costringerà a fuggire fuori dai confini del nuovo emirato?

Il New York Times rivela che il governo americano avrebbe promesso aiuti al futuro governo in cambio della garanzia che venga risparmiata la sede diplomatica Usa, di cui comunque si prepara l’eventuale chiusura per evitare un nuovo sequestro sullo stile di quanto avvenne all’ambasciata americana a Teheran, assaltata dagli studenti nel 1979 ai tempi di Khomeini, o dell’assalto al consolato di Bengasi, finito nel 2012 con la morte di John Christopher Stevens, ambasciatore americano in Libia. I talebani in una nota ufficiale hanno promesso un’«amnistia generale» per chi ha collaborato con il governo e le «forze occupanti». Nel testo si assicura che i diplomatici stranieri «non verranno toccati», così come le proprietà private e imprenditoriali. Sarà vero o è solo propaganda?

Quanto sta accadendo in Afghanistan potrebbe portare alla nascita di un nuovo califfato in Asia centrale, e sancisce la fine dei progetti di stabilizzazione e di modernizzazione. Con la rivincita talebana potrebbe tornare la minaccia terroristica alla sicurezza internazionale e si aprono nuovi spazi di egemonia per la Cina e per la Turchia. Se non è stato saggio andare in Afghanistan, non è ancora peggio ritirarsi in questo modo lasciando le porte aperte ai “barbari” senza costruire valli di Adriano?

L’inarrestabile avanzata

Con la conquista di Kandahar, Lashkar Gah e Feroz Kohl sono quindici (su 34) i capoluoghi di provincia dell’Afghanistan passati sotto il controllo dei talebani in una settimana. È la prima volta che il governo di Kabul registra una perdita così rapida dei propri territori. A Kandahar le forze di sicurezza si sono ritirate dalla città lasciando sotto il controllo degli insorti un’area che era una delle basi operative americane più importanti. Almeno fino a quando le truppe internazionali hanno consegnato il comando alle forze afghane lo scorso primo maggio, come concordato nel piano di ritiro dal paese. È un successo strategico dato che si tratta della seconda città più grande del paese dopo la capitale. In più è considerata il luogo di nascita del movimento talebano.

Anche Lashkar Gah, da ultimo, è caduta nelle mani dei ribelli. La provincia di Helmand, quella dove si produce più oppio, è un’altra storica roccaforte talebana. Già l’oppio, la cui coltivazione doveva essere sradicata e la cui produzione è invece quadruplicata negli ultimi 20 anni. Un altro obiettivo fallito.

Da Feroz Kohl, ultimo capoluogo a cadere, sono arrivate notizie di fuga dei militari e dei funzionari senza combattere. L’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) ha stimato l’esistenza di almeno 250mila profughi dall’inizio di maggio, di cui circa l’80 per cento sono donne e bambini. Questo esodo si somma ai 150mila profughi registrati fra gennaio e maggio, portando il totale dei rifugiati a 3,3 milioni di persone in tutto il paese. Per la portavoce Shabia Manto «il numero di vittime nelle ostilità è immenso» e l’Afghanistan è destinato a registrare «il peggior bilancio di vittime civili in un conflitto da quando l’Onu ne tiene il conto».

I talebani hanno reso noto di aver arrestato l’ex governatore di Herat, il potente “signore della guerra” e alleato del governo Ismail Khan, insieme a molti dei suoi stretti collaboratori. In un messaggio Khan afferma di essersi unito ai talebani.

Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha sentito Mario Draghi, per fare il punto sulla situazione in Afghanistan. Durante il colloquio è stata ribadita la necessità di procedere per mettere in sicurezza anche il personale dell’ambasciata italiana a Kabul.

In risposta all’avanzata dei talebani il Pentagono ha annunciato che invierà 3.000 militari aggiuntivi, 8mila in totale nel Golfo Persico, per consentire l’evacuazione ordinata del personale occidentale a Kabul. Ma il presidente americano Joe Biden, in linea con il suo predecessore Donald Trump, non ha cambiato idea sulla necessità del ritiro.

La Gran Bretagna, che probabilmente ha mantenuto dei piccoli gruppi di commandos nel paese, fa invece sapere tramite il ministro della Difesa Ben Wallace, di «essere pronta a tornare in Afghanistan se il paese dovesse iniziare a ospitare al Qaeda diventando così una minaccia per l’occidente». Il ministro Wallace ha incolpato di tale situazione «l’accordo marcio» stretto dall’ex presidente Trump con i talebani nel 2020.

Frasi dette sotto l’emozione di una disfatta? Forse, ma Londra ha sottolineato che il ritiro delle truppe americane «ha creato molti problemi e grandi difficoltà», in un raro scontro verbale tra i due storici alleati.

Blinken rassicura Ghani

Il segretario di Stato Usa Antony Blinken e il segretario alla Difesa Lloyd Austin hanno parlato con il presidente dell’Afghanistan, Ashraf Ghani, per sottolineare che gli Stati Uniti rimangono impegnati nella sicurezza e nella stabilità del paese di fronte alla violenza dei talebani.

Il tutto in attesa di vedere quanto resisterà Kabul, città di oltre 4,4 milioni di persone, difesa da migliaia tra militari e forze di polizia che presidiano tre anelli di sicurezza. Lo scenario peggiore ipotizzato dagli analisti è che la caduta della capitale avvenga in modo simile a quella di Saigon, in Vietnam, nell’aprile del 1975, quando le truppe nordvietnamite riuscirono a entrare nella città a causa dello sfaldamento dell’esercito sudvietnamita.

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