Quella che i conservatori hanno vinto ieri, sono elezioni presidenziali, cioè per il rinnovo del capo del governo dell’Iran per i prossimi quattro anni, ma in realtà sono le prove generali per la successione della guida suprema, Ali Khamenei, 82 anni, mentre i falchi serrano le fila escludendo con un colpo di mano simile a un colpo di stato ogni candidato alternativo a Ebrahim Raisi, il candidato prescelto dalla stessa guida suprema. Mossa molto azzardata ma decisa a tavolino anche a costo di far precipitare il paese in una grave crisi di legittimità e instabilità politica.

All’opposizione riformista di Hassan Rouhani, privata di tutti i maggiori candidati alle presidenziali, non resta che il boicottaggio tacito in patria ed esplicito all’estero sostenuto da campagne martellanti sui social con l’hashtag #NoToIslamicRepublic, sperando in una bassa affluenza alle urne o in un ripensamento dell’ultima ora di Khamenei per far rientrare in extremis i candidati riformisti finora esclusi. Tutto questo mentre si svolgono, in questa complicata partita a scacchi mediorientale, delicati colloqui diplomatici a Vienna per il ripristino dell’accordo sul nucleare iraniano del 2015 in cambio dell’eliminazione di alcune pesantissime sanzioni economiche americane.

A Teheran il ministero dell’Interno minaccia di pene severissime chi propaganda il boicottaggio elettorale e dà prova di normalità annunciando tre dibattiti televisivi e ipotizzando di estendere le operazioni ai seggi fino alle 2 del mattino del 19 giugno per consentire lo svolgimento delle operazioni in osservanza delle norme anti pandemia. A causa di gravi errori iniziali e sottovalutazioni degli effetti devastanti di alcune cerimonie e pellegrinaggi religiosi di massa nella città santa di Qom, l’Iran oggi è il paese più colpito in medio oriente con tre milioni di casi, oltre 80mila vittime e una campagna vaccinale in salita.

L’appello di Khamenei

La guida suprema dell’Iran ha fatto appello ai cittadini affinché partecipino alle elezioni presidenziali che si tengono oggi, ignorando le parole di coloro che invitano a boicottarle. «Non prestate attenzione a coloro che fanno campagna dicendo che è inutile andare a votare», ha detto Khamenei, durante un incontro in videoconferenza con i deputati del Majlis, il parlamento di Teheran. Chi «simpatizza con la gente non impedisce a essa di votare», ha detto la guida suprema. Il riferimento è a una campagna avviata da vari mesi sui social network da diversi oppositori in esilio, rafforzata dalla decisione del Consiglio dei guardiani della costituzione di escludere dalle elezioni i due candidati principali del fronte centrista e riformista, l’ex presidente del parlamento Ali Larijani (che ha una figlia che vive negli Usa) e l’attuale primo vicepresidente, il riformista Eshaq Jahangiri. «Alcuni si lamentano del Consiglio dei guardiani» o esprimono preoccupazioni per «la partecipazione», ha detto Khamenei.

Tuttavia, se «i candidati riescono a dimostrare al popolo di essere efficaci, il popolo si recherà alle urne e la partecipazione sarà elevata», ha aggiunto la guida suprema. Khamenei ha ribadito il suo forte sostegno alle decisioni legali del Consiglio dei guardiani, il che farebbe escludere che l’ayatollah voglia intervenire direttamente – com’è in teoria ancora possibile e come avvenuto due volte in passato – per rimettere uno dei due candidati.

Il presidente in carica, Rouhani, ha inviato una missiva a Khamenei per chiedere «maggiore concorrenza» alle elezioni presidenziali. «L’essenza delle elezioni è la concorrenza fra i candidati. Se la eliminano avremo un cadavere», ha dichiarato Rohani facendo riferimento alla «morte» del pluralismo elettorale durante un discorso televisivo, il giorno dopo l’annuncio del rifiuto delle candidature di Jahangiri e Larijani, in quell’ircocervo che è la Costituzione iraniana, con istituzioni prese a prestito dai sistemi liberaldemocratici inserite in un regime teocratico sciita con alcuni poteri assoluti alla guida suprema. «Ho scritto alla guida suprema se può essere d’aiuto su questo punto», ha aggiunto Rouhani. Responsabile dell’esame dei fascicoli di circa 600 candidati nelle elezioni del 18 giugno, il Consiglio dei guardiani della costituzione, un organo non eletto responsabile tra l’altro della supervisione delle elezioni, ha autorizzato solo sette persone a competere per le presidenziali, tra cui cinque politici dell’area iper-conservatrice.

I candidati

I candidati ammessi a partecipare alle elezioni sono i seguenti: Ebrahim Raisi, ultraconservatore capo della magistratura, già candidato perdente contro Rouhani nel 2017 e a questo punto favorito per la vittoria alle prossime presidenziali; Mohsen Rezaei, già comandante in capo dell’Esercito del corpo delle guardie della rivoluzione islamica (i cosiddetti pasdaran); Mohsen Mehralizadeh, esponente del fronte riformista ed ex governatore della provincia di Isfahan; Said Jalili, conservatore, già segretario del Consiglio supremo di sicurezza nazionale; Alireza Zakani, conservatore, già candidato due volte alle elezioni e altrettante volte squalificato dal Consiglio dei guardiani; il riformista Abdolnaser Hemmati, oggi governatore della Banca centrale dell’Iran e della sua iper svalutata moneta, il rial; di Seyyed Amir Hossein Ghazizadeh Hashemi, parlamentare conservatore.

Secondo molti osservatori, al pari delle elezioni legislative del 2020, anche le presidenziali saranno caratterizzate dalla bassa partecipazione della popolazione che potrebbe precipitare al 30 per cento.

La crisi di legittimità del regime

Nel febbraio 2020, le elezioni legislative sono state contrassegnate da un’astensione record (57 per cento) anche a seguito dell’esclusione di decine di candidati moderati e riformisti. In queste settimane, l’ayatollah Khamenei ha lanciato una serie di appelli per una partecipazione «massiccia» e «rivoluzionaria» alle elezioni.

Sebbene le elezioni avranno scarso impatto sulle politiche estere o nucleari dell’Iran, in cui Khamenei ha già l’ultima parola, un presidente capo dell’esecutivo intransigente potrebbe rafforzare la posizione del leader supremo della Repubblica islamica dell’Iran e del clero sciita in patria. Khamenei controlla già la magistratura, le forze di sicurezza, le emittenti pubbliche e le fondazioni religiose che controllano a loro volta gran parte dell’economia del paese anche grazie a una favorevole rete di generose esenzioni fiscali.

Se Raisi (che ha sostenuto i negoziati di Vienna, affermando che la priorità del suo governo sarebbe la revoca delle sanzioni statunitensi) vincesse le elezioni come appare assai probabile, potrebbe aumentare le possibilità del religioso sciita di medio rango di succedere alla fine a Khamenei, che a sua volta ha ricoperto la carica di presidente per due mandati prima di diventare leader supremo alla morte di Khomeini nel 1989. I gruppi per i diritti umani hanno criticato Raisi, che ha perso contro Rouhani alle elezioni del 2017, per il suo ruolo di giudice nelle esecuzioni di migliaia di prigionieri politici nel 1988.

Un altro candidato di spicco della linea dura è Jalili, che ha perso la gamba destra negli anni Ottanta quando combatteva per le Guardie rivoluzionarie d’élite nella guerra Iran-Iraq. Ex viceministro degli esteri, Jalili è stato nominato da Khamenei nel 2013 al Consiglio degli esperti, che ha il compito di risolvere i conflitti tra il parlamento e il Consiglio dei guardiani. La corsa alle elezioni ristretta potrebbe ulteriormente offuscare le speranze dell’establishment clericale di ottenere un’alta affluenza alle urne. I sondaggi di opinione ufficiali, tra cui uno condotto a maggio dalla televisione di stato iraniana, suggeriscono che l’affluenza alle urne potrebbe essere del 30 per cento, significativamente inferiore rispetto alle elezioni passate.

In questo quadro alcuni importanti politici pro-riforma in Iran e attivisti all’estero hanno chiesto il boicottaggio delle elezioni e l’hashtag #NoToIslamicRepublic è stato ampiamente twittato dagli iraniani all’interno e all’esterno del paese nelle ultime settimane.

Siamo dunque di fronte a un ultimo tentativo di ricompattamento del regime in vista della transizione più rilevante: non quella alla presidenza della Repubblica ma quella al ruolo di guida suprema. Anche a costo di correre una crisi di legittimità della Repubblica islamica tra i giovani e gli eredi dell’onda verde riformista a cui rispondere con una nuova repressione di massa affidata ai pasdaran e al corpo dei basij.

 

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