Le aree conquistate dalle milizie oramai sembrano città fantasma: i guerriglieri controllano tutto, le banche sono chiuse, la gente fa fatica ha difficoltà a reperire i beni essenziali alla sopravvivenza. E mentre i leader dell’Rdc e del Rwanda tentano di lanciare un cessate il fuoco, la popolazione continua a fuggire in massa. Le Ong: «I giovani stanno abbandonando il paese»
Dall'Est della Repubblica democratica del Congo (Rdc) devastato da un’ennesima recrudescenza del conflitto che si protrae ormai da oltre due mesi, giungono flebilissimi segnali di speranza. Lo scorso 18 marzo, in un’occasione non comunicata in anticipo e altrettanto inattesa dati i gravissimi attriti in atto, i due leader della Rdc e del Rwanda Félix Tshisekedi e Paul Kagame hanno chiesto un cessate il fuoco nelle aree orientali del Congo, nel tentativo di porre fine all'ultimo capitolo di un conflitto che dura da tre decenni e cha fatto milioni di morti.
L'annuncio a sorpresa ha fatto seguito a un incontro tenutosi in Qatar in cui, sotto il patrocinio dell'emiro Tamim bin Hamad Al Thani, i due capi di stato hanno discusso della situazione e concordato un cessate il fuoco incondizionato e immediato dopo essersi detti «impegnati a proseguire i colloqui».
In una dichiarazione rilasciata successivamente dall'ufficio di Tshisekedi, si legge che il presidente della Rdc «ha concordato con il suo omologo rwandese di proseguire le discussioni alla ricerca di un accordo duraturo che miri a ristabilire l'integrità territoriale della Rdc, a stabilizzare la regione e a porre fine alle terribili violenze perpetrate dall'M23 nel Nord e nel Sud Kivu».
Troppe incognite
Il fatto che i due non abbiano fatto alcun cenno riguardo a come il cessate il fuoco dovrebbe venire attuato o monitorato, però, lascia certamente mole perplessità sulla serietà delle intenzioni e dà corda ai tanti pessimisti abituati, anche recentemente, a incontri, strette di mano e accordi, poi rivelatosi carta straccia. In questo caso, però, c’è un nuovo indizio che farebbe propendere la bilancia lievemente verso il fronte degli ottimisti: i ribelli dell'M23, impegnati, come è noto, in un'offensiva nell'est della Rdc dalla fine di gennaio, che ha portato alla presa di Goma e di Bukavu, rispettivamente capitali del Kivu del Nord e del Sud, e ha lasciato una scia spaventosa di morte e devastazione, ritireranno le loro forze dalla città di Walikale, di cui avevano preso il controllo qualche giorno prima, a «sostegno degli sforzi per risolvere il conflitto».
Sul campo, la situazione è desolante. Le continue violenze e l'instabilità hanno costretto negli ultimi mesi centinaia di migliaia di persone a fuggire dalle loro case e causato la morte di almeno 7.000 individui, oltre a un numero incalcolabile di feriti e traumatizzati.
La Repubblica Democratica del Congo vanta il triste primato di essere uno dei paesi al mondo con la più alta popolazione di sfollati. Più di 7 milioni sono le persone costrette a lasciare le proprie case a causa dei conflitti, di queste 3,8 milioni nelle solo nelle province del Nord e del Sud Kivu, nell'est del Paese. All’incirca 780.000 individui sono dovuti fuggire e lasciare tutto nel periodo tra novembre 2024 e gennaio 2025.
Secondo l'Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, dall’inizio dell’anno sarebbero già oltre 100.000 le persone che hanno attraversato i confini e sono approdate nei paesi limitrofi: 69.000 in Burundi, 29.000 in Uganda e circa 1.000 in Rwanda e Tanzania.
«Sì, la popolazione sta lasciando l’area», spiega Monica Corna, capo missione del Vis, Volontariato Internazionale per lo Sviluppo, una Ong italiana, da 20 anni nel Kivu del Nord, «e se ne vanno soprattutto i giovani. Molti vanno in Burundi, ma la situazione lì offre poche possibilità di lavoro date le condizioni di povertà in cui versa il paese, e quindi ultimamente si sono riversati più verso la Tanzania o qualcuno fino al Kenya. Nel frattempo, sperimentano la difficoltà di vivere in un’area in cui vige una grossa confusione in merito chi gestisce il potere».
Lo Stato è infatti assente ormai e tutto è in mano all’M23, una autorità che si è legittimata da sola ma che non è legittima.
La gestione delle città e dei villaggi conquistati, della sicurezza, dei commerci, dello svolgimento della vita quotidiana degli abitanti, è in mano a loro. Anche per questo vige il terrore e le regioni conquistate sembrano oramai aree fantasma in cui tutto è bloccato. Le banche sono chiuse, non ci sono contanti quindi la gente fa fatica anche a comprare beni essenziali. La popolazione, già estremamente provata, sperimenta nuove difficoltà ed esigenze.
«Abbiamo dovuto cambiare rapidamente il nostro tipo di intervento – riprende Corna – si tratta di rispondere ai bisogni che sono diversi e, soprattutto, aumentati. Sono mutati anche perché prima ci rivolgevamo in particolare alla popolazione che affollava il campo profughi davanti al nostro centro Don Bosco, ora, che i campi non esistono più, la gente o rientra nelle proprie case o cerca rifugio nelle famiglie ospitanti, che sono nuclei già estremamente poveri che aprono le loro case. E cerchiamo di raggiungerli e di sostenerli in questa nuova fase ancora più complessa».
Addio ai campi profughi
L’eliminazione dei campi profughi è una nuova strategia dell’M23 che mira a controllare meglio la popolazione e anche a rendere vita difficile agli infiltrati dell’esercito molto presenti nei campi profughi.
Il fenomeno delle cosiddette “host families” è molto diffuso in queste zone. La gente si adatta a vivere come può, un nucleo di 5/7 persone ora può arrivare a essere composto da 12/15 persone. In una situazione di anarchia totale, in cui anche gli organismi transnazionali di aiuto fanno molta fatica a svolgere le loro attività e in cui il terrore si mischia al rischio di fame e malnutrizione, sono l’unico welfare che regge.
Inscenano una gara di solidarietà tra poveri e poverissimi che commuove da una parte, ma rende necessario e immediato l’intervento di sostegno diffuso dall’altra.
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