L’inviato di Joe Biden, Joseph Yun, si è precipitato nel cuore dell’Oceano Pacifico (dove rimarrà fino a giovedì prossimo) per ridiscutere gli accordi di associazione con le isole Marshall, Palau e la Micronesia.

Meno di 200mila abitanti in tutto, di norma non tra le priorità della diplomazia a stelle e strisce, che però, dopo il recente viaggio nelle Fiji del ministro degli Esteri Wang Yi - che ha proposto a dieci stati insulari un trattato con la Cina su commercio e sicurezza - sono diventati importanti anche per Washington. 

Ritrovatisi parte in causa nella lotta per la supremazia geopolitica tra la potenza in ascesa e quella egemone, questi arcipelaghi (tra i più esposti alle conseguenze del cambiamenti climatici) proveranno a ottenere aiuti sia da Pechino sia da Washington. Intanto Yun sarà ricevuto sull’atollo Kwajalein, il simbolo dei 67 test nucleari che, tra il 1946 a e il 1958, gli Stati Uniti condussero nell’area, dei quali gli abitanti delle Marshall stanno ancora pagando le conseguenze. Il messaggio è chiaro: ora sì, siamo pronti a risarcirvi.

Una potenza inedita

Il 19 aprile scorso a far scattare l’allarme alla Casa bianca era stato l’annuncio di un patto di sicurezza che permetterà alla Cina di stazionare navi da guerra nelle isole Salomone. Tre giorni dopo, una delegazione guidata dal coordinatore per gli affari dell’Indo-Pacifico del Consiglio per la sicurezza nazionale Usa, Curt Campbell, aveva fatto rotta sulla capitale Honiara.

Il sottosegretario di stato Daniel Kritenbrink ha avvertito il primo ministro Manasseh Sogavareche che «se fossero presi provvedimenti per stabilire una presenza militare permanente de facto, capacità di proiezione di potenza o un’installazione militare, allora avremmo preoccupazioni significative, e risponderemmo molto naturalmente a queste preoccupazioni».

Dopo che il 7 ottobre scorso la Cia ha istituito un centro di missione dedicato a quella che il suo direttore, William Burns, ha definito la «principale minaccia geopolitica che affrontiamo nel XXI secolo», il segretario di Stato, Antony Blinken, ha annunciato nei giorni scorsi la creazione nel dipartimento di stato di una “China house”, che dovrebbe coordinare le politiche sulla Cina su questioni e in aree del mondo differenti.

Nel discorso del 26 maggio alla George Washington University col quale ha esposto la strategia sulla Cina dell’amministrazione Biden, Blinken ha assicurato che «non vogliamo né un conflitto né una Guerra fredda. Al contrario, siamo determinati a scongiurare entrambi».

Eppure, in ogni campo (militare, politico, economico, commerciale), le reazioni di Washington alle mosse di Pechino ricalcano quel containment elaborato dal diplomatico statunitense George Kennan che, a partire dalla presidenza di Harry Truman (1945-1953) costituì la base della strategia contro l’Unione sovietica.

Nel suo The Sources of Soviet Conduct (pubblicato anonimo nel 1947 su Foreign Affairs) Kennan raccomandava un «contenimento di lungo termine, paziente ma vigile e deciso delle tendenze espansioniste della Russia», attraverso una «abile e attenta applicazione di contro-forza in una serie di punti geografici e politici costantemente variabili che corrispondono ai cambiamenti e alle manovre della politica sovietica».

Alle aree di libero scambio Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep), voluta dalla Cina, e al Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (Cptpp) a guida nipponica, dal quale Trump ritirò gli Usa e al quale Pechino ha presentato richiesta di adesione, l’amministrazione Biden ha risposto il 23 maggio scorso lanciando l’Indo-Pacific Economic Framework (Ipef) che, a differenza della Rcep e del Cptpp non è un’area di libero scambio, e che punta a condividere con i paesi partner le regole stabilite da Washington su economia digitale, resilienza delle catene d’approvvigionamento, cambiamenti climatici e anticorruzione.

Mentre nel Pacifico occidentale a ogni mossa ed esercitazione cinese (nello Stretto di Taiwan, nel Mar cinese meridionale e orientale) ne corrisponde una degli Usa e dei loro alleati nella regione, che fanno a gara con Pechino anche nell’aumento delle spese militari. Washington ha rilanciato il Quadrilateral Security Dialogue (Quad), il gruppo di paesi (Giappone, Stati uniti, India, Australia) che condivide l’impegno «per una regione che sia libera, aperta, inclusiva, sana, ancorata ai valori democratici e non vincolata dalla coercizione».

E, il 15 settembre 2021, è nato Aukus, un accordo di sicurezza trilaterale (Australia, Regno unito, Stati uniti) con focus sulla regione indo-pacifica che mira a dotare anche l’Australia di sottomarini nucleari e istituisce una cooperazione di difesa tra i tre paesi anglosassoni su missili ipersonici e anti-ipersonici e sulla guerra elettronica.

L’elenco delle contromosse per contrastare l’aumento dell’influenza cinese nell’Asia-Pacifico potrebbe proseguire a lungo, ma il punto è: un containment come quello praticato con successo contro l’Urss può funzionare contro la Repubblica popolare cinese?

Impegnato per decenni come diplomatico nello spazio sovietico, Kennan aveva studiato a fondo le dinamiche della potenza nemica, riassunte nel saggio apparso nel 1947 su Foreign Affairs e passato alla storia come “X Article”, che esponeva con chiarezza l’ideologia, le capacità e la strategia dell’Urss. Alla fine il containment - praticato durante la Guerra fredda con diverse intensità e qualche modifica - ebbe successo, perché il blocco socialista implose sotto il peso di un’ideologia stagnante, di un’economia chiusa e di un espansionismo insostenibile. Tutte caratteristiche che non ritroviamo nella Cina di Xi Jinping.

Mancano i nuovi Kennan

Ci sarebbe da chiedersi se la miriade di think tank che contribuiscono a dare forma alla politica estera Usa abbiano riflettuto a sufficienza sulle «cause della condotta cinese», dal momento che, di fronte a un attore così diverso dall’Unione sovietica (la Cina non ha alcuna ideologia da esportare, né guida un blocco di paesi alleati, ha un’economia dinamica e relativamente aperta, è il primo partner commerciale di 120 paesi, è un concorrente tecnologico per i paesi avanzati, si muove soprattutto nell’Asia-Pacifico, è impreparata da un punto di vista militare…) viene riproposta sostanzialmente la stessa strategia adottata nei confronti di Mosca.

La strategia esposta da Blinken il mese scorso si articola in tre punti: rafforzare le alleanze anti-Cina, bilaterali e multilaterali (Aukus, Quad, e Nato); promuovere l’Ipef come alternativa alla Rcep e al Cptpp; intensificare le azioni militari sui tre hotspot del Pacifico occidentale: Stretto di Taiwan, Mar cinese meridionale e orientale.

Tuttavia, prima che con la natura inedita della potenza cinese, a Washington potrebbero essere costretti a fare i conti con un altro problema: la volontà degli stati della regione (le cui élite economiche e politiche sono ormai da tempo “decolonizzate”) non è quella di schierarsi in una nuova Guerra fredda, ma quella - manifestata pubblicamente, dalle Filippine al Vietnam, agli stati insulari al centro del Pacifico - di avere buone relazioni sia con la Cina sia con gli Stati Uniti, in modo da trarre dalla neutralità il massimo beneficio per le proprie esigenze di sviluppo. Il paese al momento più disposto a schierarsi con Washington “senza se e senza ma” è il Giappone, più problematiche le posizioni di Australia e Corea del Sud. 

I motivi della contrarietà della stragrande maggioranza dei paesi asiatici a una nuova Guerra fredda sono stati riassunti dal primo ministro delle Fiji, Frank Bainimarama, che ha spiegato che «le rivalità geopolitiche non hanno alcun valore per chi vede la propria comunità scivolare sotto il livello del mare che si sta alzando, per chi sta perdendo il lavoro a causa della pandemia o è stato danneggiato dal rapido aumento del prezzo delle materie prime».

Se gli Stati Uniti ripropongono contro una nuova potenza una strategia vecchia, il motivo potrebbe risiedere, per quanto possa sembrare paradossale, nella mancanza di esperti alla Kennan. Nell’accogliere con favore il lancio della “China House”, Deborah Seligsohn ha sostenuto che «abbiamo bisogno di rafforzare le competenze sulla Cina». «Il problema più grande - ha aggiunto l’ex diplomatica Usa, nell’ambasciata a Pechino tra il 2003 e il 2007 - è che c’è una reale necessità di creare una squadra di esperti cinesi e di fare in modo che possano intraprendere carriere lunghe e di successo».

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