La crisi in Ucraina ha tristemente evidenziato, ancora una volta, l’inadeguatezza delle Nazioni unite nell’affrontare le minacce e le violazioni alla pace e alla sicurezza internazionale. Il trattato istitutivo dell’Onu ha ormai quasi ottant’anni e, sebbene i suoi scopi e principi siano ancora oggi attuali e condivisibili, gli organi e i meccanismi di funzionamento dell’organizzazione hanno sicuramente bisogno di trasformazioni profonde.

In verità, tale esigenza è sentita da tempo e numerose sono state le proposte di riforma dell’organizzazione avanzate dagli studiosi, soprattutto negli anni Novanta del secolo scorso.

Il rafforzamento dei poteri

Due gli obiettivi individuati, ma difficilmente conciliabili: il rafforzamento dei poteri dell’organizzazione, in una prospettiva di cosmopolitismo autoritario, o la sua progressiva democratizzazione, in una interpretazione di cosmopolitismo democratico.

Nella prima impostazione, l’attenzione era posta sul rafforzamento del Consiglio di sicurezza, al quale avrebbe dovuto essere conferita una maggiore incisività e un ampliamento nella sua capacità di intervento militare, con compiti di prevenzione e (persino) di ingerenza di carattere umanitario. Nella seconda impostazione, diametralmente opposta, le proposte di revisione riguardavano non solo l’abolizione o l’attenuazione del potere di veto del Consiglio di sicurezza o l’allargamento della membership dell’organo in esame, ma soprattutto la costituzione di un’altra assemblea plenaria a suffragio universale. In questa prospettiva, alcuni arrivavano ad auspicare persino l’abolizione del Consiglio di sicurezza e la completa riorganizzazione delle Nazioni unite.

Anello di congiunzione tra queste due impostazioni era il rafforzamento della giurisdizione internazionale, realizzata attraverso una trasformazione della Corte internazionale di giustizia (Cig), da dotare del potere di interpretazione autentica o di controllo sulle attività degli altri organi delle Nazioni unite, del carattere obbligatorio della sua giurisdizione per le controversie tra stati e della possibilità di riconoscere la capacità di agire in giudizio anche ai popoli e agli individui.

Come è noto, nessuna di queste proposte ha superato la soglia del dibattito teorico ed è mai stata posta all’ordine del giorno di una possibile riforma delle Nazioni unite.

L’evoluzione

Di fronte a questo empasse, l’organizzazione ha dimostrato, in un certo senso, di sapersi “evolvere” e in parte adattarsi alle esigenze che via via si sono manifestate nella vita della comunità internazionale, grazie anche all’utilizzo della cosiddetta “teoria dei poteri impliciti”.

In base a essa, gli organi delle organizzazioni internazionali possono esercitare non solo i poteri esplicitamente attribuiti loro dal trattato istitutivo, ma anche tutti i quei poteri che sono necessari e sufficienti all’esercizio dei poteri espressi, nei limiti delle competenze a esse attribuite.

La stessa Cig ha fatto numerose volte applicazione di tale teoria rispetto alla Carta, ampliandone ulteriormente la portata, finendo per collegare l’esercizio dei poteri impliciti ai fini dell’organizzazione.

Tale interpretazione estensiva, seppur non contestata dagli stati membri, oggi rischia sovente, nella sua applicazione pratica, di creare qualche problema, in ragione dell’ampiezza dei fini assegnati alle Nazioni unite e soprattutto in relazione al funzionamento dell’organizzazione, basato sul principio di attribuzione.

Il dibattito sulla Corte

In questo contesto, deve dunque essere inserito l’attuale dibattito sul ruolo che la Corte internazionale di giustizia debba avere in tema di sicurezza internazionale. Si tratta di un terreno scivoloso, dal momento che la Cig è il principale organo giurisdizionale delle Nazioni unite, è imparziale, ed è chiamata a risolvere le controversie tra stati o a formulare pareri su richiesta degli organi autorizzati.

È, in altre parole, un giudice, la cui competenza in materia di mantenimento della pace non è espressamente descritta nella Carta, ma derivata dal suo status di organo delle Nazioni unite, che, come tale, deve perseguire gli scopi generali dell’organizzazione, in particolare la salvaguardia della pace e della sicurezza internazionale.

Da questo generale obbligo, si può dedurre un “potere” in tal senso? Di che tipo? Certo è che la Corte, basandosi sulla sua natura essenzialmente arbitrale, ha talvolta inteso la propria funzione giudiziaria comprendendovi una serie di elementi “di sistema”, che l’hanno portata a svolgere funzioni non strettamente giudiziarie o a esprimere posizioni su profili di una controversia rispetto ai quali non ha giurisdizione. Ma quanto in là può spingersi? E quale il suo ruolo nella sicurezza internazionale?

Due sono le prospettive evocate. Da una parte, si sostiene che al centro del disegno istituzionale della Corte vi sarebbe un compromesso tra ordine sovranazionale e sovranità statali che le impedirebbe di svolgere una funzione significativa in materia. Il ruolo della Corte non sarebbe, infatti, quello di promuovere una qualche concezione universale del diritto internazionale, ma piuttosto di decidere le cause dinanzi a essa nel miglior modo possibile entro i suoi limiti istituzionali.

Dall’altra parte, in maniera forse un po’ troppo audace, si sostiene che, attraverso pareri e decisioni, quest’ultima sarebbe chiamata a tracciare una linea conduttrice per la prassi degli stati anche in questa materia, alla luce di disposizioni espresse del proprio statuto.

Ci sembra, tuttavia, che sia più condivisibile una visione intermedia. La via giurisdizionale per la gestione delle crisi internazionali non può essere considerata percorribile, né tantomeno sostitutiva di mezzi diplomatici o coercitivi. Tuttavia, la Corte nel sottolineare spesso il suo ruolo di orientamento dell’Onu, sia nella risoluzione delle controversie tra stati, che nella protezione dei valori della Carta di San Francisco, sembra oggi voler ampliare al massimo le sue potenzialità, soprattutto in materia cautelare.

La pronuncia sull’Ucraina

Lo scorso marzo, infatti, accogliendo l’istanza dell’Ucraina, ha adottato misure provvisorie sulla base della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, e ordinato alla Russia di sospendere immediatamente l’operazione militare iniziata a febbraio di quest’anno nel territorio dell’Ucraina.

Vista la paralisi del Consiglio di sicurezza e l’impossibilità di un suo intervento a tutela della pace e della sicurezza, prima di esporre le proprie argomentazioni, la stessa Corte ha affermato espressamente di essere consapevole «degli scopi e dei principi della Carta delle Nazioni unite e delle sue responsabilità nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionali». Così, alla luce di tali principi e valori, e in ragione del carattere eccezionale della situazione, la Corte ha scelto di pronunciarsi (anche se in via cautelare), interpretando la propria giurisdizione in maniera un po’ troppo estensiva e basandosi sulla necessità del momento.

Questo atteggiamento della Corte, seppur condivisibile sul piano meta-giuridico, ha posto dei problemi riguardo al tipo di poteri da questa utilizzati. Forzando i presupposti della propria giurisdizione, la Corte si è spinta forse troppo oltre, rischiando di minare la propria credibilità. Infatti, se non si presentano particolari problemi quando la Corte utilizza poteri espressi, e resta nella sfera del principio di attribuzione, numerose incertezze si pongono quando oltrepassa il dato testuale dei poteri espressamente conferitile, al di là delle sue competenze, tenendo conto unicamente dei fini dell’organizzazione.

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