Alla fine del febbraio 2017, appena un mese dopo l’inaugurazione della presidenza di Donald Trump, l’allora procuratore generale Jeff Sessions dava ufficialmente il via alla luna di miele tra la nuova amministrazione e il settore delle prigioni private. Con una nota lunga appena un paragrafo cancellava la raccomandazione data dalla precedente amministrazione Obama al Bureau of Prisons, l’agenzia responsabile per le carceri federali, di ridurre o non rinnovare i contratti con società private.

Il memorandum di Obama, secondo Sessions, aveva messo «il Bureau in condizioni di non poter affrontare le future necessità del sistema penitenziario federale». Per questo, ordinava all’agenzia di «tornare all’approccio di prima», dando così anche a intendere che tra le sue priorità non c’era certo quella di ridurre il numero di carcerati.

Nell’arco di poche ore le azioni delle due principali imprese americane del settore, Geo Group e Core Civic, che avevano ripreso quota già dall’annuncio della vittoria di Trump, segnarono numeri da record, rassicurando gli investitori per i quattro anni a venire.

Esattamente l’opposto di quanto accaduto un mese fa, quando la vittoria del democratico Joe Biden ha iniziato a essere palese per tutti, o quasi.

Nella prima settimana dopo l’election day, entrambe le società hanno perso alla borsa di New York tra il 15 e il 20 per cento. Tra gli impegni che Biden ha voluto ereditare dall’ala più a sinistra del suo partito, c’è infatti quello di tornare sulle orme di Obama nell’opporsi alla privatizzazione delle carceri.

Il business dell’incarcerazione

Nel corso della sua campagna ha promesso di mettere fine al business dell’incarcerazione, quantomeno a livello federale. La misura, come anticipato da un portavoce del presidente eletto, dovrebbe coinvolgere sia il Bureau of Prisons che un’altra agenzia federale, la Us Immigration and Customs Enforcement (Ice), preposta al controllo dell'immigrazione e delle frontiere. Quasi l’80 per cento degli immigrati detenuti negli Stati Uniti si trova infatti in centri di detenzione privati, inclusi quelli rivolti a intere famiglie e aperti proprio durante l’amministrazione Obama, con una scelta che fu duramente criticata.

Il dibattito politico sulla privatizzazione delle prigioni va avanti da decenni negli Stati Uniti, quantomeno da quando, nel 1997, il governo federale ha cominciato ad appaltare la gestione e costruzione di alcune delle sue prigioni a società private, cosa che diversi stati già facevano dagli anni ottanta.

Tuttavia il discorso è molto più antico e affonda le sue radici nelle pratiche emerse soprattutto negli stati del sud dopo la guerra civile, in seguito all’abolizione della schiavitù: in mancanza di schiavi, i proprietari delle piantagioni stringevano accordi con le autorità locali per sfruttare i detenuti, che in ogni caso restavano per la maggioranza neri. Senza entrare in digressioni storiche, basti pensare che il carcere di massima sicurezza della Louisiana è conosciuto come “Angola” dal nome della piantagione che ha rimpiazzato.

L’importante è il profitto

Sebbene il tema dello sfruttamento del lavoro dei carcerati rimanga valido ancora oggi, con alcuni stati come l’Arkansas che non impongono alcun tipo di remunerazione, ciò che viene criticato alle carceri private è appunto un approccio che, per loro stessa natura, predilige il profitto sulla riabilitazione. Diverse testate americane se ne sono occupate in modo approfondito. Nel 2014, un giornalista di Mother Jones, Shane Bauer, si è fatto assumere come guardia carceraria in una prigione statale gestita da CoreCivic. Dalla sua  indagine ed esperienza da insider, durata quattro mesi, è emerso un mondo in cui i detenuti sono ancora più esposti a violenza e abusi, mentre il personale viene preparato e remunerato al minimo, e i programmi per la riabilitazione ridotti all’osso.

«Una delle ragioni per cui i peggiori abusi nelle carceri americane avvengono dentro strutture private è che queste non sono sottoposte allo stesso tipo di monitoraggio di quelle pubbliche», spiega David Fathi, direttore del National Prison Project dell’American Civil Liberty Union (Aclu), una secolare organizzazione che si occupa di difendere i diritti garantiti dalla costituzione e le libertà civili degli americani. «Per esempio la legge che garantisce accesso ai documenti governativi, la Freedom of Information Act, non si applica a queste compagnie private». Lo stesso, spiega Fathi, vale per un’altra legge, la Open Meeting Law, riguardante la trasparenza delle riunioni tra rappresentanti di enti pubblici.

Coloro che invece difendono la privatizzazione delle carceri, come Sessions nella sua breve nota, sostengono che risponda in modo cost effective, ovvero economicamente conveniente, al bisogno di posti letto nelle prigioni, in altre parole che aiuti a ridurre i costi dell’incarcerazione di massa diventandone di fatto il principale business parassita.

Il feeling con Trump

Con oltre due milioni di persone recluse, gli Stati Uniti continuano infatti a registrare il più alto tasso di incarcerazione al mondo. Anche se nelle carceri private è rinchiuso meno del 10 per cento della popolazione carceraria americana, si parla di centinaia di migliaia di persone. Per un business con un valore complessivo di miliardi di dollari.

Nel corso dell’ultimo anno fiscale, più della metà dei ricavi di Geo Group e Core Civic provenivano dal governo federale. Geo Group, in assoluto la società più grande nel settore, ha firmato con Washington contratti per 900 milioni di dollari, quasi il doppio rispetto all’ultimo anno della presidenza Obama.

La felice relazione tra le compagnie che gestiscono strutture di detenzione private e l’amministrazione uscente, negli ultimi quattro anni si è consolidata in diversi momenti, anche non sospetti. Ad esempio quando Trump ha deciso di firmare prima di quanto stabilito la sua controversa riforma fiscale, alle porte del Natale 2017. Per le grandi compagnie nel campo delle prigioni private, e per i loro azionari, è stata una manna dal cielo: “l’affitto” delle celle al governo era stato, già da tempo, riconosciuto come equiparabile a un’operazione immobiliare e dunque avrebbe goduto di significativi sgravi sulle tasse.

D'altronde le società coinvolte non hanno risparmiato per sostenere l’ascesa politica di Trump, né nel 2016, né quest’anno.

Nel corso delle scorse elezioni, oltre ad aver contribuito generosamente alla sua campagna elettorale attraverso un super Pac repubblicano, Geo Group aveva donato 250mila dollari per l’inaugurazione. A curare gli interessi della società a Washington, negli ultimi anni, è stato Brian Ballard, considerato il più potente lobbista nella cerchia di Trump. Inoltre il fondatore e amministratore delegato di Geo Group, George Zoley, frequentava regolarmente i resort del presidente e aveva spostato la conferenza annuale della sua azienda nel suo golf club di Doral, alle porte di Miami. Insomma tutto era stato predisposto affinché gli affari andassero bene e così è stato. Fino a ora.

Cosa può fare Biden

«L’elezione di Biden è un colpo duro per il settore delle prigioni private - conferma Fathi - Il governo federale è il loro cliente maggiore, quindi perderlo potrebbe stenderle al tappeto». Tuttavia, spiega il direttore del National Prison Project, è importante che Biden estenda l’intenzione di chiudere i contratti anche per quanto riguarda la detenzione degli immigrati, o meglio ancora che riduca questo tipo di incarcerazione fino a porne fine.

Durante l’amministrazione Trump sia Geo Group che CoreCivic hanno infatti stretto nuovi contratti a lungo termine con l’Ice e rescinderli non sarà così semplice. È anche puntando sulla detenzione degli immigrati senza documenti che il settore punta di sopravvivere all’era Biden, oltre ad aver già pianificato una diversificazione dei servizi, come l’espansione dei programmi di riabilitazione post carcere.

«Il numero di persone rinchiuse nelle carceri federali è già in diminuzione dal 2011 e Biden dovrebbe puntare a diminuirla ulteriormente», spiega Fathi. Biden, che è stato criticato per aver in passato sostenuto leggi dure in materia di lotta al crimine e alla droga, in vista di queste elezioni si è detto deciso a decriminalizzare reati minori, come l’uso e possesso di marijuana.

«È assolutamente possibile che riesca a rispettare la sua promessa e a mettere fine alla privatizzazione delle carceri - dice Fathi - Negare alle persone la propria libertà, chiuderle in una gabbia, può essere fatto solo da un governo democratico e responsabile delle proprie azioni, non da una società privata il cui obiettivo è massimizzare i profitti».

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