Nel diffuso rumore di fondo che ha accompagnato queste ultime settimane di campagna elettorale americana, una notizia ha attirato l’attenzione degli osservatori di politica estera: Donald Trump avrebbe ottenuto l’endorsement nientemeno che dei Talebani, convinti che un secondo mandato del presidente porterebbe al ritiro definitivo delle truppe statunitensi dall’Afghanistan. Al di là delle facili ironie suscitate dalla notizia, questa ci ricorda una verità importante: nonostante la politica estera raramente giochi un ruolo nelle elezioni, essa è destinata a essere profondamente influenzata dal loro risultato. E quando si guarda indietro a questi quattro anni di presidenza Trump, si nota che una delle aree del mondo più impattate dalla declinazione in politica estera dell’“America first” è proprio il Medio Oriente.

Effetto Trump

Dall’abbandono dell’accordo sul nucleare con l’Iran, che ha portato più volte Washington e Teheran pericolosamente vicine al confronto aperto, allo spostamento dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme, al lasciapassare concesso senza colpo ferire al principe ereditario saudita Mohammad bin Salman nel caso Khashoggi, fino agli accordi di Abramo che hanno portato alla normalizzazione delle relazioni tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, la cifra di questo primo mandato di Trump è stata proprio la risaldatura delle relazioni con gli alleati, Israele e paesi del Golfo, e il ritorno al contenimento dell’Iran.

Quello che appare invece meno evidente è che, nonostante siano cambiate in questi quattro anni le modalità, l’obiettivo di fondo della politica mediorientale di Trump è stato lo stesso di quella del suo predecessore Barack Obama: diminuire il coinvolgimento militare diretto statunitense nell’area, delegando la gestione dell’ordine regionale ai paesi direttamente coinvolti, sostenuti anche da copiose – e redditizie – forniture militari made in Usa.

Sugli altri dossier, dalle crisi croniche in Libia, Siria e Yemen alla crisi libanese, l’approccio di Trump è stato non dissimile da quello di Obama. Semmai, solamente portato all’esasperazione: tanto è vero che se per Obama si parlava di leading from behind, oggi per Trump si parla di aperto disinteresse.

Vale dunque la pena domandarsi che cosa cambierà o non cambierà dopo le prossime elezioni.

Una riconferma di Trump porterebbe con ogni probabilità ad altri quattro anni di declinazione in chiave mediorientale dell’America First, mentre un’affermazione elettorale di Joe Biden potrebbe aprire alcuni spiragli di cambiamento.

Questione di metodo

Come già nel passaggio da Obama a Trump, però, quello che molto più probabilmente cambierà in un eventuale avvicendamento da Trump a Biden sarà il metodo: il candidato democratico ha apertamente espresso l’intenzione di abbandonare l’approccio transazionale e unilaterale dell’attuale presidente e ritornare al multilateralismo e alla collaborazione con gli alleati europei, e ripulire l’appannata immagine degli Usa come difensori dei valori della democrazia liberale e del diritto internazionale.

Biden promette insomma di non chiudere gli occhi di fronte a futuri casi come quello di Jamal Khashoggi, il giornalista saudita ucciso in Turhcia su mandato del regime di Ryad, e di non replicare quanto compiuto da Trump proprio in questi giorni come uno dei suoi ultimi atti di politica estera: la storica rimozione del Sudan dalla lista dei paesi sponsor del terrorismo in cambio di un copioso versamento in denaro da parte di Khartoum nelle casse del Tesoro americano.

Promette inoltre di tornare all’accordo sul nucleare iraniano e di non remare più apertamente contro gli interessi degli europei, come accaduto proprio con il dossier iraniano che ha aperto in questi anni una frattura profonda tra le due sponde dell’Atlantico (e ha portato l’Europa, in un grande inedito, a fare fronte comune con Iran, Cina e Russia).

Promette poi di abbandonare l’appoggio incondizionato a Israele, e ripristinare quantomeno i fondi per l’Autorità nazionale palestinese e l’Unrwa, drasticamente tagliati nell’epoca Trump. Si dice poi convinto che gli Usa debbano recuperare un ruolo di guida nella risoluzione dei conflitti, con un rinnovato impegno nella risoluzione delle crisi in Libia, Siria e Yemen.

Quanto di queste espressioni di intenti potrà effettivamente arrivare a compimento, rimane però una grande incognita. Quattro anni possono essere un tempo insignificante per i grandi equilibri internazionali, ma un tempo sufficiente per alimentare l’entropia mediorientale. E così Biden, anziché dettare l’agenda, potrebbe trovarsi a dover gestire i processi già avviati da Trump: il programma nucleare iraniano è tornato a essere una realtà e non è così scontato che Teheran, che nel frattempo ha accumulato un maggiore potere negoziale, sia disponibile a tornare ad accettare pesanti limitazioni senza una contropartita adeguata. Ma qualunque contropartita fornita all’Iran alzerebbe pericolosamente il livello di allarme in Israele e nei paesi del Golfo, da oggi apertamente impegnati in una cooperazione che è soprattutto di sicurezza: altro trend, questo, benedetto da Trump e dal quale difficilmente si potrà tornare indietro.

Difficile, se non impossibile, poi, risolvere i conflitti aperti nella regione senza andare alla radice del problema, ovvero il pesante coinvolgimento di attori esterni, in primis Russia e Turchia, che alimentano conflitti locali grazie anche ad attori non statuali come il Gruppo Wagner o i mercenari siriani reclutati da Ankara e attivi dalla Libia all’Armenia.

Questo mescolarsi dei piani e questo scollamento tra dinamiche locali e agende (e agenti) esterni è stato reso possibile proprio dal disinteresse di Washington in questi anni, e sarà difficile porvi rimedio. Se dunque Biden volesse tornare all’approccio obamiano di creazione di un ordine regionale in cui diversi attori regionali, dall’Iran all’Arabia Saudita, si controbilancino a vicenda garantendo la stabilità del sistema, l’impresa non sarà semplice.

Sullo sfondo, poi, rimane il fatto che l’obiettivo ultimo continuerà a essere la razionalizzazione degli sforzi e delle energie in nome della vera grande partita di questo secolo: la competizione con la Cina. In questo senso, i Talebani potrebbero scoprire nei prossimi quattro anni che il ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan è con ogni probabilità destinato ad avvenire indipendentemente dal fatto che le elezioni siano state vinte o meno dal loro candidato favorito.

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