“Ho lavorato in questo posto per diciotto anni. Sono entrata da stagista, me ne vado da vicedirettrice”. Veronika Munk è la vicedirettrice uscente di Index, portale di informazione tra i più letti in Ungheria e punto di riferimento anche all’estero, grazie a una versione in inglese. Qui fino a poche settimane fa era possibile leggere ad esempio che il governo di Viktor Orbán ha segretato i suoi affari con la Cina.

“Per diciotto anni non ho avuto altri piani se non scrivere, scrivere in modo libero e indipendente. Poi le cose sono cambiate. E se ci penso, mi piange il cuore”, dice Munk. Assieme a più di settanta colleghi si è dimessa in segno di protesta dopo il licenziamento del suo direttore, Szabolcs Dull, che era entrato in conflitto con l’amministratore delegato del portale, László Bodolai. Quando ha avuto il sentore che l’indipendenza di Index era a rischio, Dull ha denunciato la “svolta” e ha dichiarato: “Siamo in pericolo”, scatenando in questo modo l’attenzione - anche internazionale - sul controllo dei media da parte del governo.

La redazione di Index è l’eccezione perché, dopo aver dichiarato che la propria indipendenza era a rischio, ha agito di conseguenza. Ma per altri versi Index è la norma: è l’ennesima voce libera ungherese che cade nella trappola del governo, senza che Orbán si sporchi le mani.

Al premier basta un mix di soldi e pressioni: inietta quantità crescenti di fondi pubblici nella propaganda governativa (nel 2018, lo stato ha speso in pubblicità trecento milioni di euro, circa un terzo del mercato di settore; nell’ultimo anno la cifra è aumentata: 450 milioni). Inoltre, grazie a un controllo serrato sul sistema economico, dirige le concessioni pubblicitarie soltanto verso i media compiacenti.

Il monitor annuale sul pluralismo dei media in Europa, appena pubblicato dal Centre for Media Pluralism and Media Freedom, nel capitolo riguardante l’Ungheria attesta la gravità della situazione così, in percentuali di rischio: concentrazione del mercato al 71 per cento (quindi “alto rischio” e poco pluralismo). Indipendenza dalla politica compromessa all’82 per cento (quindi, anche qui, “alto rischio” e poca libertà). Interessante è poi la spiegazione su come il governo esercita la sua influenza sul panorama mediatico: “Una influenza per procura, tramite prestanomi, marionette, oligarchi e legami di natura economica; ecco, questa è la caratteristica principale dei media ungheresi oggi”.

Index è un esempio di questa dinamica: a marzo, in piena pandemia, l’oligarca Miklos Vaszily, ex sovrintendente della radio-tv pubblica, emanazione di Orbán nel mondo dei media, ha assunto la proprietà al cinquanta per cento della concessionaria di pubblicità “Indamedia”, che tiene in vita il portale Index. Il direttore ha fiutato il pericolo. Nel frattempo alla testata è stata prospettata una “riorganizzazione”, con esternalizzazione di contenuti e di giornalisti. Il motivo di facciata è “tirare su i conti” del giornale.

A quel punto Dull, invece di tenere riservato il piano di ristrutturazione, ha dichiarato l’allarme: “Qui a Index la nostra indipendenza e il nostro staff sono in serio pericolo”, ha scritto. L’amministratore delegato Bodolai non ha gradito la mossa e lo ha licenziato. In risposta, i colleghi di Dull si sono dimessi in massa. A Budapest la società civile e i partiti di opposizione sono scesi in strada per protestare.

“Una democrazia non ha bisogno di essere anche liberale”, “va infranta la visione liberale della società”: sono parole di Orbán, che dal 2010 governa ininterrottamente ed estende il proprio controllo sui media. La deriva è cominciata con una legge sui media approvata appunto dieci anni fa (e fonte di tensioni con Bruxelles), grazie alla quale il governo ha potuto colonizzare i media pubblici. Ma il controllo non si limita a quelli.

Nel 2016 il principale quotidiano di opposizione, Népszabadsag, è stato stroncato grazie a un prestanome, Heinrich Pecina, che ha rilevato il giornale per poi decretarne la fine. Pecina è citato dall’ex leader dell’estrema destra austriaca Heinz-Christian Strache nel 2017, durante la imbarazzante serata a Ibiza che lo ha portato alle dimissioni da vicecancelliere, dopo essere stato registrato mentre auspicava sostegni dalla Russia. “Dobbiamo fare come lui”, ha detto Strache, indicando Pecina come modello di longa manus sui media.

L’anno dopo, nel 2018, è nato in Ungheria il conglomerato filogovernativo “Kesma”(Central european and media press foundation) che assorbe mezzo migliaio di prodotti editoriali di ogni genere (radio, tv, giornali).

Nel frattempo le testate libere, una dietro l’altra, hanno chiuso o sono diventate organi di propaganda (come è accaduto al portale Origo) mentre la presa del premier su economia e società è diventata sempre più tentacolare. “Proprio grazie alla cooptazione integrale o parziale degli oligarchi e imprenditori, il premier esercita il suo controllo indiretto sui media”, spiega Stefano Bottoni autore di ”Orbán: un despota in Europa” (Salerno editrice, 2019).

La vicedirettrice di Index non è troppo sorpresa da quello che è successo alla sua testata. “Nel nostro caso non si poteva parlare di controllo diretto sui giornalisti, ma di fatto ci sarebbe stata un’influenza esterna sulla struttura della redazione, inoltre il direttore è stato licenziato. A tutti gli effetti, la nostra indipendenza era compromessa”, dice Munk.

Il paradosso è che “secondo la legge ungherese, quando un giornalista si dimette, il suo datore di lavoro può decidere se mandarlo a casa oppure farlo lavorare ancora un mese. Mentre una parte di noi da oggi è libera, io sono tra quelli costretti a lavorare ancora trenta giorni qui”.

E dopo la vicenda di Index, anche 24.hu, l’altro grande portale di informazione ungherese, finisce nel mirino del governo. Così dice il proprietario, Zoltán Varga: “Il governo sta lanciando una campagna per screditare me e la mia azienda. I media indipendenti, proprio come Index, sono considerati dalle autorità come un ostacolo”.

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