La missione negli Usa della presidente Giorgia Meloni ha prodotto quanto era previsto: nessuna marcia indietro sui dazi da parte di Trump. I dazi non sono negoziabili, semmai si può cercare di evitare gli extradazi, quelli del 20 per cento o più minacciati e poi sospesi per 90 giorni. Ma i dazi rappresentano la nuova forma fiscale con cui gli Stati Uniti (o meglio Trump) ritengono giusto finanziare lo Stato americano, quasi a remunerare il suo ruolo di dominatore del mondo che dispensa servizi di sicurezza e di polizia internazionale.

Una compensazione anche per l’eccesso di valutazione del dollaro a causa del suo ruolo di moneta di riserva internazionale. È una specie di gabella messa su tutte le merci che entrano negli Usa, una sorta di “pizzo” da pagare a chi ha la forza e la protervia d’imporlo.

Tasse sugli acquisti

Ormai, bisogna chiamare le cose con il loro nome: i dazi di Trump sono tasse sugli acquisti degli americani con riferimento alle importazioni. Se Trump avesse messo queste tasse su tutti gli acquisti degli americani (importati o nazionali) non avremmo avuto nulla di ridire. Sarebbe stata una misura fiscale restrittiva volta a contenere la domanda interna, ovvero a racimolare risorse finanziarie da devolvere ad altri scopi (altra spesa pubblica o riduzione di tasse a specifici cittadini). Aver limitato la tassazione alle sole importazioni ha determinato una discriminazione che è contraria alle regole del commercio internazionale in vigore dal dopoguerra. Ecco allora che la prima reazione che dobbiamo effettuare è quella di deferire gli Usa al Wto perché siano condannati per pratiche discriminatorie. La Cina ha proceduto su questa strada e non c’è ragione che l’Italia e tutta l’Unione europea non facciano altrettanto.

Certo, la denuncia non porterà soluzioni a breve e Trump sembra del tutto allergico alle regole internazionali che ha già sfidato in diverse occasioni. Ma noi, che invece crediamo nelle regole internazionali, dobbiamo farne ricorso e, alla fine, torneranno utili. La denuncia al Wto ci autorizza a reagire cercando di colpire nei settori dove ci siano minori danni per la nostra economia. Se anche noi mettessimo per ripicca tasse indiscriminate su tutte le importazioni dagli Usa, finiremmo per aumentare i costi delle nostre produzioni e/o per ridurre il potere d’acquisto delle nostre famiglie a causa dell’aumento dei prezzi che ne deriverebbe.

Quindi, non conviene reagire in maniera speculare per non fare la stessa fine che rischiano di fare gli Usa. Inutile replicare a una manovra fiscale restrittiva negli Usa con una manovra fiscale restrittiva in Europa. Meglio agire, eventualmente, col prelievo fiscale sulle big tech americane che operano “sulle nuvole” e pagano ben poche tasse nei nostri paesi. Poi sarà necessario allargare il commercio ad altre aree mondiali. Certo, ci vorrà tempo e non sarà la stessa cosa per tutti i prodotti, dato che ogni mercato ha le sue esigenze e le sue particolarità, mentre sono necessari investimenti anche importanti per affermarsi in nuovi mercati.

Ma se andiamo indietro nella storia degli ultimi 50 anni, possiamo constatare che l’Italia ha brillantemente convertito le sue esportazioni dalle aree più disparate del mondo: dall’Europa al Medio Oriente all’epoca delle crisi da petrolio, poi verso gli Stati Uniti e l’America Latina, quindi verso la Russia con la caduta del muro di Berlino e l’Estremo Oriente al momento dell’apertura della Cina, infine ci siamo riconvertiti all’Europa. Insomma, ci vuol un po’ di tempo, ma ci si adatta ai nuovi mercati di sbocco e gli Usa sono solo il 13 per cento del commercio mondiale.

Trump sta portando gli Usa all’isolamento commerciale e noi non dobbiamo far nulla per frenarlo: dovranno farlo gli elettori americani quando capiranno gli errori che sta commettendo il loro presidente. Darsi da fare e agitarsi per negoziare con Trump una modifica dei dazi appare operazione inutile e dannosa. Inutile, perché Trump ha bisogno dei dazi come fonte di raccolta fiscale, senza la quale il bilancio pubblico americano allargherà il suo disavanzo e gli sarà impossibile ridurre anche marginalmente la pressione fiscale. Quindi Trump manterrà comunque un livello di dazi almeno a quel 10 per cento che ha introdotto come base. Dannoso, perché insistere a tutti i costi di negoziare offrendo possibili contropartite, finisce per concedere a Trump un vantaggio tattico che lui sfrutterà: come ha recitato nel suo volgare discorso dove ha affermato che: molti paesi fanno la fila, mi pregano di negoziare e, per farlo, sono disposti a tutto (tralascio il resto del suo scurrile discorso).

Effetto boomerang

Più passa il tempo e più i consumatori americani capiranno che Trump ha fatto una politica fiscale restrittiva che aumenterà l’inflazione e ridurrà la capacità di spesa, nello stesso tempo in cui i mercati azionari sono crollati, decurtando patrimoni e rendite. Il crollo delle azioni si ripercuoterà su milioni di cittadini americani anziani perché le loro pensioni sono valutate sui rendimenti azionari, mentre verranno decurtati anche i redditi di fondazioni ed enti che esercitano attività di carattere sociale e culturale, dato che tali redditi derivano da patrimoni investiti in gran parte nella borsa americana che ha subìto perdite rilevanti. Il capo della Casa Bianca sta preparando il campo per una recessione che purtroppo finirà per colpire anche noi. Speriamo serva almeno per far comprendere agli elettori americani l’errore che hanno fatto eleggendo un presidente che sta facendo proprio quello che aveva promesso in campagna elettorale.

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