Per spiegare i motivi dell’invasione russa dell’Ucraina, funzionari e analisti occidentali spesso indicano il desiderio della Russia di mantenere o espandere la sua “sfera di influenza”. «Mosca sta cercando di riportare indietro la storia e ricreare la sua sfera di influenza», ha affermato il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, alla conferenza di Monaco, pochi giorni prima dell’inizio delle ostilità.

Il messaggio veicolato da questo linguaggio tende generalmente a delegittimare gli obiettivi della Russia, presentandoli in una luce fondamentalmente negativa. Come se i paesi della Nato non fossero più nella fase di lotta per le “sfere di influenza”.

Dal canto suo, la diplomazia russa non si è mai astenuta dal ricambiare la cortesia. Ricordiamo le parole del ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov nel 2014: «Esortando l’Ucraina ad andare in una direzione e avvertendola di scegliere l’una o l’altra, stare con l’Unione europea o con la Russia; stanno fondamentalmente cercando di creare una sfera di influenza; è ovvio e nessuna parola può cambiarlo».

La guerra che sta insanguinando l’Ucraina può dunque essere rappresentata come un conflitto classico il cui obiettivo è delimitare le “sfere di influenza” dell’Unione europea e della Russia? Questo è ciò che suggeriscono queste reciproche accuse: ogni campo accusa l’altro di volere l’obiettivo che esso stesso è sospettato di perseguire.

Ma cosa intendiamo quando parliamo di “sfere di influenza”? Da dove viene la loro ragione d’essere? E sono così anacronistiche nel Ventunesimo secolo come si dice? Queste sono le tre principali domande a cui cercheremo di rispondere qui.

Il grande gioco

Per comprendere appieno il concetto di “sfera di influenza” bisogna risalire alle categorie della diplomazia imperialista di fine Ottocento.

Su questo punto sono utili i commenti offerti da un alto funzionario dell’impero britannico, Lord Curzon di Kedleston, viceré dell’India dal 1899 al 1905.

Secondo lui, la nozione di “sfera di influenza” sarebbe apparsa nel contesto del grande gioco, ovvero della rivalità geopolitica che, dalla fine delle guerre napoleoniche fino alla vigilia della Prima guerra mondiale, oppose l’impero britannico e russo in Asia centrale: «Quando è stata usata per la prima volta questa espressione nel linguaggio della diplomazia? Non lo so. Ma dubito che si possa trovare un evento antico più importante di quello che appare nell’assicurazione data originariamente dal conte Gorchakov a Lord Clarendon nel 1869, e spesso ripetuta in seguito, che l’Afghanistan era “completamente al di fuori della sfera in cui la Russia potrebbe essere chiamata a esercitare la sua influenza”. E da allora, le sfere di influenza sono diventate, particolarmente in Africa, ma non meno in Asia, uno dei mezzi riconosciuti per estendere i propri confini o rivendicare pretese».

La “sfera di influenza” è quindi una delle forme assunte dall’espansionismo delle grandi potenze dell’epoca. Nella scala del dominio imperialista, Curzon lo colloca a un livello inferiore a quello del protettorato: «Una sfera di influenza è una forma meno sviluppata di un protettorato, ma più sviluppata di una sfera di interesse».

Rispetto al protettorato, che implica «un notevole grado di controllo da parte del potere tutelare sulla politica e sulle relazioni internazionali dello stato protetto», la “sfera di influenza” consisterebbe solo nell’esclusione da parte di un potere di ogni altro potere economico e della penetrazione politica rispetto alla propria in una determinata area territoriale: «Il governo nativo è generalmente lasciato solo; la sua intoccabile sovranità viene talvolta riaffermata in modo specifico; ma lo sfruttamento commerciale e l’influenza politica sono considerati un diritto riservato al potere interessato».

È quindi l’esclusività di questo “diritto riservato” che costituisce la differenza specifica della “sfera di influenza” dalla semplice “sfera di interesse”, in cui «lo sfruttamento commerciale e l’influenza politica del “potere interessato” non esclude quelli di altri poteri». Pertanto, la “sfera di influenza” può essere definita come una sfera di interesse esclusivo; che, tornando alle nostre preoccupazioni contemporanee, sembra essere esattamente ciò che intendeva Lavrov quando, nel 2014, ha criticato Bruxelles per aver costretto l’Ucraina a “scegliere” di stare o con l’Unione europea o con la Russia.

Espansione capitalista

Ma che bisogno hanno le grandi potenze di “creare” o “ricreare sfere di influenza”? Nel 1907, Curzon invocò una serie di ragioni, «a volte politiche, a volte commerciali, a volte strategiche, a volte una combinazione delle tre: con la rapida crescita della popolazione e la necessità economica di nuovi sbocchi, l’espansione è diventata una necessità sempre più pressante per le grandi potenze».

In altre parole, la ragion d’essere delle “sfere di influenza”, nonché la fonte dei conflitti, risiederebbe nelle dinamiche espansive della produzione capitalistica alla ricerca di nuovi mercati. Di qui la sfida teorica che la loro stessa esistenza rappresenta, a cavallo tra Ottocento e Novecento, per i fautori della dottrina economica liberale, di cui contraddice uno dei dogmi fondamentali: la “legge degli sbocchi” di Say, secondo la quale qualsiasi offerta che crei una domanda equivalente al suo valore libera dal bisogno di aprire i mercati all’estero.

È proprio questa difficoltà che l’economista social-liberale inglese John A. Hobson cerca di superare nel suo libro Imperialism, a Study (1902), ipotizzando una «maldistribuzione del potere di consumo» che impedirebbe «l’assorbimento di beni e capitali all’interno del paese». La legge di Say risulterebbe quindi falsata dal sottoconsumo di alcuni e dall’eccessivo risparmio di altri, compreso il “surplus di capitale”, investito all’estero per non poter essere investito in loco. Questa dinamica inciterebbe i governi a esercitare il controllo su vaste “sfere di influenza”.

Se per Hobson si tratta di una semplice anomalia del capitalismo, per i teorici marxisti queste politiche imperialiste sono, al contrario, il culmine logico, il suo “stadio supremo”. Questi teorici hanno il vantaggio di non dover salvare la legge di Say. In Marx, infatti, «la tendenza a creare un mercato mondiale è racchiusa nel concetto stesso di capitale», dato che il movimento di valorizzazione del valore, fine a sé stesso e condizione della produzione capitalistica, non può avere «né fine né misura». La creazione di questo mercato mondiale capitalista permette di realizzare il plusvalore estorto al lavoro salariato. Ma permette anche di ritrasformare questo plusvalore capitalizzato in nuovi mezzi di produzione?

Questa è la domanda che si pone Rosa Luxemburg e alla quale lei stessa risponde negativamente. Ne consegue, secondo lei, che l’accumulazione capitalista sarebbe impossibile senza la creazione di “sfere di influenza” del capitale europeo nei territori precapitalisti extraeuropei.

Mentre l’intera teoria lussemburghese spiega l’imperialismo sulla base dello schema di riproduzione allargato, quella dell’austro-marxista Rudolf Hilferding sottolinea invece la dialettica della concentrazione del capitale, che, attraverso il «collegamento crescente tra capitale bancario e capitale industriale», trova «la sua manifestazione più alta e più astratta sotto forma di capitale finanziario».

Tuttavia, per poter contrastare la tendenza al ribasso del saggio di profitto indotta da questa concentrazione sempre più avanzata di capitali all’interno di grandi società monopolistiche (come i trust americani, la Konzern tedesca o la zaibatsu giapponese), l’evoluzione verso il capitalismo finanziario richiederebbe l’estensione del «territorio economico», non solo con l’apertura di nuovi mercati, ma anche con l’esportazione di capitali la cui sicurezza oltre i confini richiede la protezione dello stato.

Perché, come giustamente osserva Hilferding: «Quando costruisci ferrovie all’estero, acquisisci terreni lì, costruisci porti lì, apri e gestisci miniere lì, il rischio è molto maggiore rispetto a quando acquisti e vendi semplicemente merci».

Ecco perché la penetrazione economica di una “sfera di interesse” ne richiede la trasformazione in una “sfera di influenza” politica, come è classicamente illustrato dal regime delle concessioni ferroviarie e dei “territori di locazione” negli Stati Uniti.

Rivoluzione e liberalismo

Le politiche delle “sfere di influenza” appartengono a un’èra passata della diplomazia?

Certamente alla fine della Prima guerra mondiale, fu doppiamente contestata in nome del principio dell’autodeterminazione dei popoli.

In primo luogo dalla rivoluzione bolscevica del 1917, che divulga i trattati segreti conclusi dalle potenze imperialiste dell’Intesa (Patto di Londra con l’Italia, accordi Sykes-Picot ecc.) e formula la richiesta di una pace «senza annessioni (cioè senza sequestro di terre e senza pignoramento con forza di nazionalità straniera)».

Poi, dalla “nuova diplomazia” promossa dal presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson nel suo famoso discorso sui “quattordici punti”: «Il tempo delle conquiste e delle espansioni è finito; così come sono finiti i giorni degli accordi segreti conclusi nell’interesse di governi particolari e capaci, in ogni momento, di turbare la pace del mondo».

Rivoluzione globale o Società delle nazioni? Entrambi questi progetti politici intendevano porre fine alla divisione imperialista del mondo in “sfere di influenza”.

Purtroppo l’Internazionale comunista, nata inizialmente per realizzare la giunzione tra il movimento operaio dei paesi capitalisti avanzati e i movimenti di liberazione nazionale dei paesi colonizzati o semicolonizzati, si è trasformata sotto le mani di Stalin in una rete di influenza al servizio della politica estera dello stato russo.

Quanto alla Società delle nazioni, lungi dall’iniziare una nuova èra nelle relazioni internazionali, essa è apparsa, soprattutto in Germania, come uno strumento atto a legittimare l’egemonia dei vincitori angloamericani in nome di criteri giuridici e morali puramente formali e universalisti.

In risposta, la questione delle “sfere di influenza” è riemersa, in una fase più alta, nella forma concettuale della Großraumordung (l’“ordine dei grandi spazi”) che ha ispirato progetti fascisti e nazisti per ridistribuire il mondo in diverse grandi aree economiche e di influenza politica, ciascuno dominato da un grande potere (impero o Reich), sul modello della dottrina Monroe.

Il “grande spazio”, volutamente concepito come “autarchico”, è definito, in particolare da Carl Schmitt, dal principio di non intervento di ogni potere che gli sia estraneo; quindi, ancora una volta, dal suo carattere esclusivo.

Naturalmente, nessun eurocrate oggi commetterebbe l’errore di riferirsi al concetto sulfureo di Großraumordung. Nemmeno l’estrema destra del parlamento europeo che, appunto, ne incarna l’elemento più strettamente sovranista. Inoltre, il fatto stesso di “sanzionare” la Russia e criminalizzare i suoi leader mostra quanto l’Unione europea rientri nella logica wilsoniana della “guerra discriminatoria” e nel diritto internazionale universalistico che essa presuppone.

Tuttavia, un recente lavoro dello storico G.-H. Soutou, Europa! The European Projects of Nazi Germany and Fascist Italy, Paris, 2021, suggerisce alcune continuità intellettuali tra l’asse e la costruzione europea post 1945.

Basta uno sguardo a una mappa per capire che con i suoi accordi di partenariato, l’Unione europea non è lontana dal realizzare i sogni geopolitici più sfrenati della “Nuova Europa” degli anni Quaranta.

Il problema è che i limiti di questo “grande spazio” euromediterraneo in formazione non sono fissi, di fronte a una Russia che, dal canto suo, ha da tempo stabilito le sue “linee rosse”.

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