Il 2 dicembre 2016, Donald Trump, ormai presidente in pectore degli Stati Uniti, è stato raggiunto da una telefonata che gli ha fatto immediatamente capire quanto complicato sarebbe stato, nell’immediato futuro, il rapporto tra Washington e Pechino. All’altro capo dell’apparecchio c’era Tsai Ing-wen – eletta alla presidenza della Repubblica di Cina, meglio conosciuta come Taiwan, solo sei mesi prima del tycoon statunitense – che desiderava complimentarsi per il successo elettorale riscosso da Trump in patria. Dopo aver conversato amabilmente per una decina di minuti di temi riguardanti la politica, l’economia e la sicurezza nella regione asiatica, i due si sono congedati. Ma il futuro presidente americano ha resistito solo qualche istante prima di consegnare trionfalmente ai social, a lui tanto cari, i ringraziamenti alla «presidentessa di Taiwan» per la cordiale telefonata di auguri.

È stata proprio questa precisazione di Trump, e i toni entusiastici usati, a irritare il governo di Pechino che dal 1949, quando i comunisti di Mao hanno scacciato i nazionalisti costringendoli a rifugiarsi a Taiwan, ha incessantemente considerato l’isola alla stregua di una “provincia ribelle”, che prima o poi dovrà “fare ritorno alla madrepatria”. Nonostante in alcuni momenti della storia recente le relazioni economiche tra le due sponde dello Stretto siano state molto positive, le autorità della Cina continentale si sono costantemente e seccamente opposte a qualunque velleità di indipendenza da parte taiwanese, minacciando il ricorso alla forza nel caso in cui Taipei decida di “secedere” dalla Cina.

Le provocazioni

È in quest’ottica che i cinesi hanno ripetutamente minacciato la sopravvivenza di Taiwan, marginalizzandola a livello internazionale – oggi solo una quindicina di piccole nazioni intrattengono relazioni formali con Taipei – visto che ciò equivale a non poter stringere alcun rapporto con Pechino – e lanciando una serie di provocazioni militari. Quanto accaduto negli ultimi giorni, quando una nutrita flotta di velivoli militari della Repubblica Popolare ha fatto incursione nello spazio aereo di Taipei, non rappresenta di certo una novità, ma contribuisce certamente a innalzare pericolosamente il livello della tensione tra i due paesi. Solo ad aprile le incursioni aeree da parte cinese sono state praticamente quotidiane. Non è detto, comunque, che le provocazioni cinesi si configurino come prove d’attacco ai danni di Taiwan: la Cina, infatti, non solo non è ancora dotata della forza necessaria per lanciare un’invasione su larga scala, ma non avrebbe alcun motivo per rischiare di trovarsi invischiata in un conflitto con gli Stati Uniti (e di riflesso con il Giappone), che sicuramente interverrebbero a difendere Taipei. Un conflitto alle porte di casa, peraltro, metterebbe a repentaglio i numerosi obiettivi che la Cina continua a perseguire nel suo vicinato, dando un colpo ferale all’agognata stabilità regionale che consente a Pechino di prosperare.

In realtà le azioni crescentemente bellicose – supportate da una propaganda altrettanto aggressiva – da parte di Pechino potrebbero anche indicare la presa di coscienza del fallimento della propria strategia, che non ha portato a nulla se non a un ulteriore consolidamento dell’asse Taipei-Washington, al progressivo riarmo (foraggiato naturalmente dagli Stati Uniti) di Taiwan, e all’interruzione della dipendenza economica di Taiwan dalla Cina continentale. È importante sottolineare, del resto, come le scorribande cinesi non abbiano impedito, nel gennaio del 2020, che Tsai Ing-wen, alla guida del Partito democratico, venisse rieletta alla presidenza dell’isola, grazie soprattutto all’enorme consenso popolare di cui gode. Negli ultimi anni, infatti, forse proprio a causa delle minacce di Pechino, all’interno della popolazione taiwanese – e significativamente tra i più giovani – è andato acuendosi un fiero sentimento identitario e indipendentista, che Tsai ha orgogliosamente incarnato.

Messaggio a Washington

Non sembra particolarmente difficile, peraltro, immaginare come le aggressive azioni cinesi nello Stretto rappresentino nient’altro che un chiaro segnale agli Stati Uniti, che tradizionalmente hanno dichiarato di voler tenere fede all’accordo – il Taiwan Relations Act del 1979 – in base al quale nel caso in cui Taipei fosse oggetto di un attacco esterno gli americani interverrebbero in sua difesa, come in queste ore riaffermato anche dal segretario di Stato Antony Blinken. Le incursioni cinesi nello spazio aereo taiwanese, del resto, si sono moltiplicate dopo che Joe Biden ha siglato con Taiwan un accordo di cooperazione per la difesa delle coste. A questo accordo Pechino ha immediatamente risposto non soltanto ammonendo seccamente gli Stati Uniti a non intrattenere alcun rapporto con Taipei, ma introducendo anche una nuova legge che permette alla propria Guardia costiera di aprire il fuoco su navi battenti bandiera straniera.

Noncurante degli avvertimenti di Pechino, nelle ultime ore Biden ha inviato a Taiwan una delegazione non ufficiale (dato che anche gli Stati Uniti non intrattengono, almeno formalmente, alcun rapporto con Taipei) composta da un ex senatore e due ex vice segretari di Stato, al fine di rimarcare il suo impegno nei confronti di Taiwan e della sua democrazia. Nel corso della visita gli americani incontreranno sia la presidentessa Tsai sia il ministro degli Esteri taiwanese, e con loro, presumibilmente, si confronteranno sui prossimi passi in ambito commerciale e di difesa. È plausibile che la delegazione americana suggerisca alle autorità taiwanesi di mantenere un comportamento di maggiore prudenza e di ripristinare un dialogo con la Cina continentale, di modo che la tensione degli ultimi tempi possa stemperarsi.

I cinesi, da parte loro, non sono rimasti a guardare e hanno deciso di riservare un “caldo omaggio” di benvenuto alla delegazione americana rappresentato dall’inizio di esercitazioni militari al largo della costa sudoccidentale dell’isola di Taiwan, nei pressi delle isole Pratas (Dongsha), controllate da Taipei ma contese da Pechino nel quadro della gestione del mar Cinese meridionale. Insomma, un quadro a tinte fosche su cui il portavoce cinese si è espresso in maniera lapidaria dichiarando che la ricerca dell’indipendenza da parte dei taiwanesi e la loro amicizia con gli americani equivalgono a «ingerire veleno nella speranza di calmare la sete».

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