«La situazione umanitaria in Afghanistan non era buona anche quando c’erano ancora gli americani. C’era povertà, anzi parecchia povertà», dice Khairullah Khairkhwa, uno dei più influenti rappresentanti del governo talebano a Kabul, in Afghanistan. Khairkhwa è stato per 12 anni a Cuba nella prigione di Guantanamo, all’indomani della caduta del primo regime talebano con l’invasione americana provocata dagli attentati dell’11 settembre 2001. È considerato un sodale di Osama Bin Laden, vicino all’ex comandante di Al Qaeda in Iraq Abu Musab al-Zarqawi, e uno dei più grandi signori della droga dell’Afghanistan occidentale. Oggi è ministro della Cultura e dell’informazione.

«Grazie all’assistenza umanitaria di organizzazioni internazionali e paesi stranieri, in una qualche misura abbiamo tenuto la situazione sotto controllo», dice nella moschea di un centro congressi durante la sua visita ad Antalya, una delle prime volte all’estero come rappresentante governativo del nuovo regime.

La crisi afghana

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In realtà la situazione sta degenerando in una delle peggiori crisi umanitarie di sempre, mentre la guerra in Ucraina distoglie l’attenzione del mondo dall’Afghanistan. Su Kiev i talebani si dichiarano “neutrali”, loro che in un certo senso possono vantarsi di avere vinto sia contro Mosca che contro la Nato.

Secondo il programma alimentare mondiale, entro pochi mesi il paese verserà in condizioni di povertà “universale”, cioè circa il 97 per cento degli afghani vivranno sotto la soglia di povertà (1,90 dollari al giorno secondo la Banca mondiale).

La sanità è al collasso e secondo l’Onu 22,8 milioni di persone, cioè più di metà della popolazione, rischiano di perdere la vita a causa della malnutrizione.

Incalzato sul tema dell’emergenza Khairkhwa, che all’epoca delle atrocità del primo regime talebano era stato ministro dell’interno, governatore di Herat e comandante militare, torna a criticare gli Stati Uniti. «Quando i dominatori (cioè gli americani, ndr) se ne sono andati, le misure adottate contro il nostro governo hanno esacerbato una situazione già complicata», spiega.
«Hanno imposto sanzioni e sequestrato i fondi detenuti all’estero dall’Afghanistan, è la loro strategia per fare pressione sul nostro esecutivo». C’è del vero in quello che dice. All’indomani della presa del potere da parte dei talebani l’amministrazione di Joe Biden ha congelato un totale di sette miliardi di dollari fra liquidi, asset e riserve d’oro che appartengono alla “Da Afghanistan Bank”, la banca centrale dell’Afghanistan, ma che erano depositati negli Stati Uniti.

Le politiche dei talebani

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È anche vero però che il nuovo regime in sei mesi ha già imposto misure repressive sulla popolazione che non aiutano Washington ad ammorbidire la propria linea. Le autorità hanno compiuto oltre cento omicidi mirati e rapimenti di ufficiali del precedente governo. Hanno limitato l’accesso delle donne a istruzione e lavoro e frustato quelle che scendevano in strada.

La decisione sui fondi - presa allo scopo di indebolire il gruppo considerato ancora terrorista in seguito a pressioni di diverse associazioni di parenti delle vittime dell’11 settembre che rivendicano i fondi per le riparazioni - sta avendo anche l’effetto di ridurre tantissimi afghani alla fame.

Al punto che il presidente americano Joe Biden, con un ordine esecutivo diramato lo scorso febbraio, si è riproposto di dirottare metà della cifra congelata in un fondo della Federal Reserve dedicato a rispondere all’emergenza, senza però passare dai talebani.

Ma tanto non basta al ministro afghano. «La situazione economica dell’Afghanistan non può essere risolta con l’assistenza umanitaria, bisogna che le riserve finanziarie vengano restituite al paese e che le sanzioni vengano revocate. Solo così i tantissimi afghani che stanno lasciando il paese a causa della situazione economica potrebbero ritornare», dice.

Khairkhwa sostiene che per altri aspetti la situazione nel paese stia evolvendo nel migliore dei modi. «È la prima volta da 40 anni che le persone possono spostarsi da nord a sud, da sud a est, da est a ovest, in tutto l’Afghanistan, senza che ci siano problemi di sicurezza. Quando c’era l’occupazione americana morivano fra le 200 e le 300 persone al giorno, oggi è ritornata la normalità».

Ma quali sono le prospettive sul piano del riconoscimento internazionale? «Sia l’ambasciata italiana che quella turca sono aperte e hanno personale diplomatico, ma non un ambasciatore», spiega Khairkhwa.

Malgrado dimostri di capire l’inglese preferisce passare per un traduttore. «Per quanto riguarda altri paesi europei, come la Germania, purtroppo quando vengono in Afghanistan in fondo al cuore hanno sempre il timore di fare cose che diano fastidio agli Stati Uniti», sostiene.

Che ne sarà delle minoranze? E poi, da ministro dell’informazione, non dovrebbe tutelare libertà di stampa e espressione? «Non abbiamo problemi con le minoranze, ce ne sono parecchie in Afghanistan e possono professare la loro religione in pace», spiega. «L’ultimo ebreo se ne è andato? Potrà ritornare quando gli pare».

Quanto ai media mette in guardia sul fatto che debbano avere a cuore un non meglio identificato «interesse nazionale». «Esistono delle leggi in Afghanistan», dice, «dobbiamo assicurarci che i mezzi d’informazione non seguano solo i desiderata dei loro finanziatori, ma anche quelli del nostro paese».

Rompere il ghiaccio

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L’occasione del viaggio della delegazione in Turchia è quella dell’Antalya Diplomacy Forum, la kermesse internazionale che nelle intenzioni del ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu dovrebbe diventare un importante palcoscenico di confronto annuale fra i leader di tutto il mondo.

Ad Antalya i talebani sembrano volersi aprire il più possibile a nuovi potenziali partner internazionali, accettando di buon grado incontri con rappresentanti di altri paesi e perfino prestandosi a dibattiti pubblici sulla crisi umanitaria in Afghanistan. «Cerchiamo di rompere il ghiaccio», dice il ministro Khairkhwa, alludendo probabilmente alle inevitabili stimmate dovute alle note efferatezze commesse nella sua storia dal movimento. 

All’ordine del giorno nei rapporti bilaterali con Ankara ci sono però gli ultimi dettagli per affidare alla Turchia il controllo dell’aeroporto di Kabul, lo snodo più strategico del paese. «Abbiamo avuto molte discussioni e molti incontri con la delegazione turco-qatarina riguardo l’aeroporto, quasi tutte le questioni sono state concordate, rimangono problemi tecnici molto piccoli, e speriamo vengano risolti presto», dice il rappresentante considerato un maxi terrorista dagli americani.

Quando dice di doversene andare ricordo a Khairkhwa il detto talebano “gli americani hanno gli orologi, noi abbiamo il tempo”. Ma lui ormai si comporta da uomo governativo.

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