La Grande madre Russia tra la fine dell’anno e il Natale ortodosso entra in un limbo soffice, prolungato, con l’apparato pubblico in ferie, temporaneamente bloccato, mentre si intensificano pranzi, sorsate di vodka, passeggiate nella neve con il cane, e dimostrazioni di devozione nelle chiese.

Riportando nella liturgia ortodossa quello che una volta pretendevano i rituali del partito. Questi sono i giorni bianchi e freddi in cui il potere, ma anche i suoi nemici, agiscono più liberamente e velocemente del solito. Nel linguaggio popolare dicono: il momento ideale per cambiare le cose, per un golpe.

E così è stato in Kazakistan il primo gennaio quando è raddoppiato il prezzo del gas. Parallelamente al braccio di ferro tra Mosca e la Nato sull’Ucraina, ai due estremi del mondo postsovietico. Come una tenaglia.

Senza risalire troppo indietro così era avvenuto alla fine di dicembre nel 1979 per invadere l’Afghanistan, per ammainare definitivamente la bandiera rossa dal Cremlino il 25 dicembre 1991, avviare la prima guerra in Cecenia nel 1993, per sostituire Eltsin con Putin l’1 gennaio del 2000, fino alle ultime settimane dello scorso anno per mettere fuori legge l’associazione Memorial che non vuole dimenticare le vittime dei gulag. Il potere raschia le brutalità e rinnova ambizioni imperiali.

Un’eredità ricca

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Il Kazakistan era la seconda repubblica più estesa dell’Unione Sovietica, una specie di terra promessa, fertile, ricca di petrolio, con miniere di oro e diamanti.

E con tre poligoni strategici: quello atomico di Kurciatov, città segreta che non esisteva sulle carte geografiche, quello spaziale di Baikonur, e quello dei missili balistici a Prioziorsk. Il meglio della tecnologia militare e scientifica del Cremlino. Tre installazioni irrinunciabili per una grande potenza. E tali restano ancora oggi.

Le autorità kazake precisano lo status attuale dei tre poligoni inseriti nel loro territorio: quello di Kurciatov-Semipalatinsk è in parte un grande corpo vuoto, composto dal Centro nucleare nazionale del Kazakistan, e da una parte dismessa controllata dalla Agenzia atomica di Vienna. Quello delle navette spaziali di Baikonur è affittato alla Russia fino al 2050, e anche quello dei missili intercontinentali a Prioziorsk è concesso in affitto alla Russia.

Secondo il metodo applicato dal Cremlino c’è una base russa anche in Armenia, esattamente sul confine segnato da un modesto fiume con la Turchia, dentro una valle stretta e profonda, dove sul lato turco restano le rovine della antica città di Ani, capitale della Grande Armenia.

Quello è l’unico contatto fisico diretto dei militari russi con un paese della Alleanza atlantica. È l’ultimo ricordo concreto della guerra fredda, dove ancora la frontiera rimane chiusa. Anche per quella base, la più grande con armi convenzionali fuori dal territorio russo, esiste un contratto d’affitto valido fino al 2040. E dopo l’arrivo dei talebani a Kabul anche la base di Mosca in Tagikistan è stata rinforzata.

Insieme ad altre presenze minori nelle ex repubbliche asiatiche formano una catena di protezione, ospitata in quella che una volta era la periferia dell’impero sovietico. E questo spiega la velocità con cui i soldati di Mosca e dei loro alleati sono arrivati in Kazakistan allo scoppiare della sommossa per il gas.

Fino a ora pretesto per ricostruzioni rocambolesche “coordinate da un unico centro”. La stessa rapidità era scattata in Kosovo dopo i bombardamenti Nato, alla fine del secolo scorso, quando al ritiro dei serbi da quella regione i mezzi blindati russi senza chiedere autorizzazioni erano partiti dalla Bosnia arrivando a spron battuto prima di tutti a Pristina e occupando di fatto l’aeroporto.

Russia e Cina sono concordi nel definire la sommossa kazaka contro la corruzione una “rivoluzione colorata”, che per loro significa sostenuta dall’esterno.

L’impero sovietico si è sciolto trent’anni fa ma la sua ricomposizione procede con i diritti doganali di transito chiesti alle ex repubbliche, incatenate dentro confini prevalentemente terrestri lontanissimi dal mare, con i tracciati dei gasdotti verso l’Europa che sono strumenti economici ma prima ancora strumenti strategici, e con le basi militari prese in affitto dentro le ex repubbliche.

Le infinite capitali

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La ricomposizione è favorita anche per il groviglio di legami che l’impero ha sparso dentro il suo vecchio perimetro. Certo nel 1991 la capitale del Kazakistan era Alma Ata, a ridosso del confine cinese, poi ribattezzata Almaty, poi trasferita in una nuova località con il nome di Astana, rinominata quindi Nursultan, per onorare l’intramontabile presidente Nursultan Nazarbaev tramontato proprio in questi giorni.

L’ultimo paese che ha sentito la necessità di costruire una nuova capitale lontana da quella vecchia è la Birmania degli eterni generali.

L’Unione Sovietica aveva trasformato San Pietroburgo in Leningrado, ma quando il partito si è sciolto allora è ritornata a chiamarsi San Pietroburgo. E così nella frantumata Jugoslavia dove Titograd è poi diventata Podgorica.

Forse un segno di scomunica, o di aperto tradimento, si è visto in questi giorni. Il presidente in carica Toqaev non ha citato la capitale per nome, forse ricordando che l’aveva ribattezzata lui stesso con il nome del suo benefattore Nazarbaev.

E quando nei giorni scorsi le truppe russe sono arrivate ad Almaty assieme a loro c’era anche un piccolo contingente armeno. Serve a rinsaldare il legame con i soldati russi che oggi fanno da cuscinetto lungo due corridoi nel Nagorno Karabak, nel Caucaso, dopo il fulmineo conflitto di un anno fa, sempre d’inverno.

E che dovrebbero capire se dietro i rivoltosi del gas compaiono gli stessi consulenti stranieri che avevano affiancato i soldati dell’Azerbaigian contro gli armeni. Sono questi gli intrecci complicati lasciati dall’impero.

L’ascesa e il tramonto di Nazarbaev

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Quando l’Urss cominciò a frantumarsi il Kazakistan era la repubblica più attraente per gli investitori stranieri. Nazarbaev non era ancora il presidente di un paese indipendente ma era già stato accolto a Pechino con il protocollo riservato a un capo di stato. Il suo incontro con il primo ministro cinese era durato sei ore.

I due paesi avevano un confine in comune, un poligono atomico ciascuno, con cittadini kazaki e uiguri da entrambe le parti. La ferrovia transiberiana passando da lì accorciava di mille chilometri la distanza con Pechino.

I cinesi promettevano una nuova via della seta per i turisti in cerca di esotismo e non pensavano nemmeno loro che avrebbe preso le dimensioni di oggi. Nazarbaev aveva detto pubblicamente: «Perché in una regione così ricca si vive così male?».

Ingaggiò un mago della economia sudcoreana, Cha Yan Beng, e trasformò prima delle altre repubbliche indipendenti il rublo in una moneta convertibile, qui arrivò il più grosso investimento americano in terra postsovietica, si accodarono le banche arabe e insieme le cupole delle moschee saudite.

Le  merci cominciarono a viaggiare solo per strada, perché nella stagione comunista treni e aeroporti vedevano arrivare metà della merce spedita. In un viaggio assieme a Ettore Mo su tre tir finlandesi, carichi di elettronica per alcuni milioni di dollari si dormiva di notte, in circolo, attorno a piccole stazioni di polizia, come le carovane nel far west americano dei film.

Arrivati ad Alma Ata, la città famosa per le sue mele, nell’albergo costruito dagli stranieri per il partito c’era solo frutta in scatola. Ma in compenso un finanziere svizzero guadagnava facendo arrivare acqua minerale dalla fonte trentina di Pejo.

La solerzia e le interferenze arrivavano anche dalla Turchia. Il presidente turco Ozal, professore universitario con idee precise, aveva avviato una penetrazione commerciale in tutta l’Asia centrale e insieme stimolando la ricerca delle affinità linguistiche, culturali.

Prima di Gorbacëv i kazaki avevano solo una scuola per studiare la loro lingua, poi con la perestrojka le scuole erano diventate tredici. La etnia kazaka oggi è  maggioranza e i russi rimasti sono due su dieci abitanti. Mentre l’alfabeto cirillico sta scomparendo.

Ma il benessere della terra promessa nel frattempo si è concentrato sempre più sfacciatamente attorno al clan di Nazarbaev. Compare la pubblicità dei bitcoin davanti alle informazioni statali. Incombe la stessa domanda dei primi giorni di indipendenza: perché in una regione così ricca si vive così male? Adesso il potere declama che le “ricchezze immense accumulate” paghino il loro debito al popolo.     

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