Sfatiamo un’opinione generalmente diffusa: la crisi ucraina non è stata improvvisa, ma ha prodromi storici, culturali e politici secolari che si sono riacutizzati dopo il crollo dell’Unione sovietica.

L’Ucraina ha una società altamente polarizzata, divisa da fratture sociali, etniche e linguistiche che hanno determinato una netta suddivisione del paese in una parte settentrionale filo-occidentale e la restante di tendenza filorussa. Questa contrapposizione si è tradotta anche a livello di élite tra i candidati presidenziali al potere – il filorusso Viktor Fedorovyč Janukovyč contro il filoccidentale Viktor Andrijovyč Juščenko – con l’avvio della “rivoluzione arancione” nel 2004 e si è ripresentata dieci anni dopo con le proteste di Euromaidan, definita la “rivoluzione della dignità” e sorta dopo la sospensione della firma dell’accordo di associazione con l’Unione europea.

Il Cremlino ha sempre ritenuto le rivoluzioni colorate in Georgia, Ucraina e Kirghizistan come una interferenza americana nella sfera di influenza ex sovietica, affiancata dall’ancoraggio democratico offerto ai paesi dell’Europa orientale dalla espansione dell’Ue e della Nato a est. A tal riguardo, in queste settimane è tornata in auge la diatriba storiografica e politica sulle “mancate promesse”, espresse dalle amministrazioni presidenziali di Bush padre e Bill Clinton ai presidenti Michail Gorbačëv durante la perestrojka e a Boris El’cin nei primi anni Novanta, di non avvicinarsi ai confini della Russia in cambio della riunificazione della Germania.

Il passato che non passa

Che siano rimaste parole al vento o non siano mai state formulate ormai poco importa perché c’è una data ben precisa che testimonia l’inascoltato avvertimento della Russia all’occidente: il discorso profetico di Vladimir Putin alla conferenza sulla sicurezza di Monaco del 10 febbraio 2007.

In quel consesso il presidente russo, evitando «inutili convenevoli e la necessità di fare formule diplomatiche piacevoli altisonanti, ma fondamentalmente vuote» con estrema chiarezza sostiene che bisogna «procedere cercando un equilibrio ragionevole tra gli interessi di tutti i soggetti delle relazioni internazionali. Tanto più ora che il panorama internazionale è così vario e così rapidamente muta in rapporto allo sviluppo dinamico di tutta una serie di paesi e di regioni».

La critica è diretta al mondo unipolare rappresentato dagli Stati Uniti che «si riduce in pratica a una sola cosa: un unico centro di potere, un unico centro di forza, un unico centro decisionale. È un mondo in cui c’è un solo padrone e un solo sovrano. E in definitiva ciò è un pericolo non solo per coloro che si trovano a vivere dentro questo sistema, ma anche per quella stessa entità sovrana, la quale finisce per distruggersi dall’interno. (…) Io ritengo che il modello unipolare non sia solo inaccettabile, ma anche impossibile nel mondo attuale. E non solo perché se a guidare il mondo di oggi – e soprattutto di oggi – ci fosse un’unica potenza, le risorse militari, politiche ed economiche non sarebbero sufficienti. (…) Ne sono certo: siamo giunti al momento critico in cui dobbiamo occuparci seriamente dell’architettura della sicurezza globale. (…) Penso che sia ovvio che l’espansione della Nato non ha niente a che fare con la modernizzazione dell’Alleanza stessa o con la necessità di rendere più sicura l’Europa. Al contrario, rappresenta un grave fattore di provocazione che riduce il livello di fiducia reciproca. E noi abbiamo il diritto di chiedere: contro chi si sta svolgendo questa espansione? E che ne è stato delle dichiarazioni fatte dai nostri interlocutori occidentali dopo la dissoluzione del patto di Varsavia? Dove sono oggi quelle dichiarazioni? Nessuno se ne ricorda nemmeno. Ma io mi permetterò di ricordare a questo uditorio quello che era stato detto. Vorrei citare il discorso del segretario generale della Nato Manfred Wörner a Bruxelles il 17 maggio 1990. Egli disse allora che: “Il solo fatto che siamo disposti a non dispiegare le truppe della Nato fuori dal territorio tedesco fornisce all’Unione sovietica salde garanzie di sicurezza”. Dove sono queste garanzie?»

E, dopo quindici anni, i nodi sono giunti, purtroppo, al pettine. Ma perché il Cremlino ha deciso di alzare la posta in gioco proprio in questi mesi?

La tempesta perfetta

È indubbio che dalla conferenza di Monaco, la Russia di Putin abbia assunto una politica più assertiva, secondo le categorie occidentali, ma, in realtà, difensiva nella dottrina della politica estera russa, perennemente influenzata dalla storica “sindrome dell’accerchiamento”.

La Russia ha anche aumentato la sua presenza in diverse aree geopolitiche (Libia, Siria, Africa) non solo per dimostrare di essere nuovamente una grande potenza mondiale (e non regionale come è stata definita dal presidente americano Barack Obama), ma anche come perno di un progetto euroasiatico in assenza di una sua inclusione nella grande famiglia europea. È un punto di svolta che emerge chiaramente nel concetto di politica estera del 2008.

Fatta questa dovuta premessa, attualmente ci sono alcune considerazioni politiche e strategiche che hanno indotto il Cremlino ad alzare il tono del confronto nella politica internazionale attraverso una richiesta scritta alla Nato.

In primo luogo, il presidente Putin e i suoi stretti collaboratori vogliono approfittare del calo di consensi nei confronti della gestione economica del presidente Joe Biden, che rende più difficile il mantenimento della maggioranza al Congresso alle prossime elezioni di midterm, ma anche sfruttare le critiche ricevute in seguito al disimpegno americano in Afghanistan che hanno minato l’immagine della Casa Bianca anche nell’arena internazionale.

In secondo luogo, Putin vuole mettere alla prova il grado di coesione interna all’Unione europea e alla Nato dopo che Biden ha affermato che l’America is back.

Per verificare questa unità tra gli alleati il presidente russo sta cercando di evidenziare alcune incoerenze legate alle scelte strategiche di alcuni paesi come la Germania e l’Italia, soprattutto nel settore energetico. E quale migliore occasione per intimorire un’Europa che dipende energeticamente dalla Russia, se non in inverno? Non solo. La questione dell’avvio del gasdotto Nord Stream2 ha creato imbarazzo all’interno delle istituzioni europee che contano sui vincoli burocratici e amministrativi per escludere alla Germania la possibilità di attivare immediatamente il gasdotto.

La tensione scaturita da questa crisi ha consentito di raddoppiare il prezzo del petrolio al barile in Russia, favorendo un aumento della disponibilità economica dei fondi di riserva a disposizione per affrontare eventuali emergenze. Il Cremlino non sembra particolarmente preoccupato di un’eventuale applicazione di sanzioni statunitensi e dell’Unione europea, avendo già dimostrato dal 2014 di essere riuscito ad ammortizzare i danni economici e sociali di tali penalità. E oggi può contare su un mercato asiatico in notevole espansione e ricco di opportunità.

Oltre alla questione energetica, c’è anche una considerazione meramente politica legata al fatto che la Germania deve affrontare la transizione post Angela Merkel, il presidente francese Emmanuel Macron è impegnato nelle elezioni presidenziali, l’Italia deve sostenere la stabilità del proprio governo e in Gran Bretagna il premier britannico Boris Johnson è alle prese con il party gate.

Una situazione irripetibile che deve essere massimizzata ora, tenendo conto dei punti di debolezza degli avversari.

Per quanto riguarda l’Ucraina, il presidente Putin non ha gradito la narrazione antirussa, fomentata da alcuni provvedimenti legislativi del presidente Volodomyr Zelensky, volti a limitare la libertà di espressione delle comunità russofone, relegando l’idioma russo nella categoria delle lingue straniere, e dell’opposizione filorussa.

Soprattutto il Cremlino è consapevole che non vi può essere alcun dialogo con chi minaccia di riprendersi, anche con la guerra, la Crimea e il territorio del Donbass. Il problema non può chiaramente essere trascurato tra due paesi che condividono oltre 1.600 chilometri di confini. Inoltre Putin mira a indebolire l’immagine politica del suo omologo ucraino in previsione delle prossime elezioni presidenziali del 2024 per contare sull’appoggio incondizionato di un nuovo presidente filorusso.

Il Cremlino vuole anche dimostrare a Zelensky che i partner occidentali non sono disposti a difendere boots on the ground l’Ucraina che, come tutti gli attori in gioco sanno, non ha i criteri necessari per aderire alla Nato a causa della presenza di una guerra civile nel territorio, così come non può contare sul voto all’unanimità dei membri dell’Alleanza atlantica, come è già stato dimostrato con il vertice di Bucarest nel 2008 che ha respinto la candidatura dell’Ucraina e della Georgia al Membership Action Plan.

Last but not least, il presidente Putin si è rivolto alla Nato in un periodo in cui vi sono due scadenze importanti: il vertice di Madrid di giugno in cui si discuteranno i punti salienti del prossimo concetto strategico per verificare la centralità della Nato nella difesa dello status quo emerso dalla guerra fredda; e a settembre la nomina del nuovo segretario generale.

Gli indizi dell’escalation

Negli ultimi dieci giorni il Cremlino ha accelerato gli eventi con una serie di iniziative che hanno spiazzato tutti coloro che non ritenevano verosimile un’invasione dell’Ucraina. I principali indizi sono stati la proposta di legge presentata dai comunisti alla Duma sul riconoscimento dell’indipendenza delle repubbliche di Donetsk e Lugansk e il discorso alla nazione del presidente Putin, che ha avviato l’inizio della campagna elettorale delle presidenziali del 2024. Il secondo ha riguardato la recente affermazione di Putin sul “genocidio” in atto nel Donbass, un chiaro riferimento al termine utilizzato dagli Usa per assegnare l’indipendenza al Kosovo. Il terzo elemento è stato l’invio di una forza di pace, inizialmente limitata alle singole repubbliche e non all’intera regione (oblast’) del Donbass, limitando il controllo del presidente Zelensky nella parte orientale e, de facto, dividendo l’Ucraina.

In questo modo, il presidente Putin conta di mantenere il controllo strategico sul Mar Nero, aumentare la forza lavoro e la densità della popolazione russa, fortemente in calo in quest’ultimo decennio; passaggi propedeutici al vero obiettivo del Cremlino: il cambiamento di regime (regime change) e la destituzione del presidente ucraino. Coperta a nord ovest con l’alleato bielorusso e con il confine orientale controllato dal Cremlino, la Russia dimostrerebbe anche alla Cina di essere un attore rilevante nel distogliere l’attenzione americana dal Pacifico e nel ribadire che il presidente Putin non può essere estromesso dalla ridefinizione della sicurezza europea e del nuovo ordine internazionale (multilateralismo).

Le mosse della prossima settimana dipenderanno dal tipo di reazione degli Usa e dell’Ue: tratto distintivo della politica estera russa è, infatti, la risposta allo stimolo esterno.

Nel corso degli anni Putin ha dimostrato di essere un valido tattico, ma la posta in gioco è veramente alta e non priva di rischi anche per la stabilità stessa dell’assetto istituzionale russo.

Tuttavia, l’invasione russa in Ucraina non sarebbe automaticamente il segnale della fine politica dell’èra di Putin. Non dimentichiamo il ruolo assunto dalla propaganda mediatica che presenta l’attuale situazione come un tentativo di ingerenza della Nato e degli Usa nella politica interna del fraterno popolo ucraino. Non è un caso che dallo scorso novembre, come ha rilevato l’istituto di ricerca, Levada Center, la popolarità di Putin sia aumentata di sei punti percentuali (dal 63 al 69 per cento). Per mantenerla, dovrà concludere queste operazioni militari il prima possibile e con successo.

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