Per quasi trent’anni, cioè dalla fine della Guerra fredda e dalla conseguente trasformazione dell’ordine economico liberale occidentale in un ordine economico virtualmente globale, il paradigma che ha, più o meno esplicitamente, dominato le democrazie occidentali è stato quello della “fine della storia” profetizzata da Francis Fukuyama.

La logica teleologica che sottendeva questa tesi era chiara e, per certi versi, consolatoria: un mondo sempre più economicamente interdipendente, con più democrazie e sempre più connesso politicamente grazie a fitti reticoli di istituzioni internazionali sarebbe stato necessariamente un mondo sempre meno soggetto alla logica della competizione tra gli stati e, quindi, più prospero, stabile, pacifico.

Pandemia e guerra

Pandemia e crisi ucraina, ancor di più di quanto non avesse già fatto la crisi finanziaria globale del 2007-2008, hanno rotto definitivamente l’illusione della fine della storia. La prima ha messo a nudo l’illusione dell’obsolescenza della statualità e, con essa, delle preoccupazioni per gli spazi di autonomia che sono necessari per fare fronte alle sfide che toccano direttamente gli interessi nazionali. Difficile immaginare un fenomeno che rispecchi in modo più fedele della pandemia quelle proprietà che in genere si associano al concetto di globalizzazione: attraversa con tutta facilità i confini, connette rapidamente luoghi geograficamente distanti tra loro, crea vincoli di interdipendenza su scala globale difficili da ignorare e che toccano direttamente le nostre vite.

Eppure, paradossalmente, la sfida più eminentemente globale che il mondo si sia trovato ad affrontare negli ultimi settanta anni ha determinato un movimento di segno opposto che ha allargato il perimetro entro il quale si inscrive l’azione statale. Le chiusure dei confini, il dispiego massiccio delle forze dell’ordine per garantire il rispetto delle misure di contenimento sociale, la competizione serrata per l’approvvigionamento di materiale sanitario e di vaccini sono solo gli esempi più evidenti sia della perdurante centralità degli stati come arene privilegiate per l’esercizio dell’autorità politica, sia dei limiti che i processi di interdipendenza economica possono imporre alla capacità degli stati di svolgere funzioni di interesse pubblico essenziali.

La seconda ha smascherato l’illusione che la globalizzazione fosse un pasto gratuito, che alle opportunità ad essa associate non corrispondessero anche, simmetricamente, altrettante vulnerabilità. La crisi energetica e i problemi di approvvigionamento alimentare causati dalla guerra in Ucraina sono gli esempi più lampanti di quanto facilmente, in presenza di focolai di instabilità geo-politica, le opportunità connesse a una profonda integrazione nei mercati globali possano trasformarsi in vulnerabilità che riportano al centro della discussione il nesso che esiste tra autonomia e sovranità.

È evidente che le risposte messe in campo per affrontare queste sfide si stiano articolando attorno a un riassetto della globalizzazione che non potrà che comportarne un ridimensionamento. I temi del re-shoring e del ridimensionamento delle catene globali del valore, dell’accorciamento delle reti di fornitura e approvvigionamento delle materie prime e della ridefinizione della geografia del commercio sono temi con i quali, indipendentemente dalle loro varietà, tutte le economie capitalistiche avanzate si stanno confrontando. La questione non è tanto se pandemia e guerra abbiano comportato un ridimensionamento della globalizzazione, fatto innegabile, quanto piuttosto se questo ridimensionamento sia un fenomeno temporaneo o se, piuttosto, comporterà un mutamento del codice genetico della globalizzazione che segna la fine di una fase storica nell’organizzazione dell’economia internazionale.

Shock sistemici

Non è la prima volta che si propone un dibattito di questo tipo. Già tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, così come avvenuto dopo la fine della Guerra fredda, ci si era illusi che fosse possibile ripensare in modo radicale la natura della politica internazionale. Le profonde relazioni di interdipendenza economica instaurate nel campo occidentale grazie alla guida politica degli Stati Uniti, si diceva, avrebbero reso obsolete le categorie tradizionali della realpolitik, erodendo la centralità degli stati nazioni e creando condizioni di mutua cooperazione economica che avrebbero finito per produrre le condizioni politiche per un sistema di relazioni internazionali finalmente pacificato. 

Eppure, allora come oggi, una serie di turbolenze economiche internazionali – la spirale inflazionistica, la crisi del sistema monetario internazionale e la crisi petrolifera – contribuirono a mettere in crisi i mantra dell’irreversibilità e della desiderabilità della globalizzazione.

Se dal punto di vista intellettuale questi avvenimenti contribuirono a riportare al centro della discussione sugli effetti dell’interdipendenza economica i concetti di vulnerabilità e autonomia, i loro effetti politici ed economici furono tutto sommato transitori: questi shock economici furono presto assorbiti e il processo di globalizzazione incardinato nell’ordine liberale occidentale riprese a correre velocemente e ad approfondirsi a seguito delle rivoluzioni fiscali conservatrici degli anni Ottanta.

Oggi, a differenza del passato, mi pare invece più plausibile attendersi che gli shock della pandemia e della crisi Ucraina possano determinare un ridimensionamento di lungo periodo della globalizzazione. Se consideriamo l’attuale contingenza storica, infatti, pare evidente che siano venute meno le condizioni politiche che in passato hanno permesso alla globalizzazione di continuare a espandersi anche a fronte di shock sistemici di enorme portata come quelli degli anni Settanta.

Segnali premonitori

In un recente saggio intitolato Antiglobalismo: le radici politiche ed economiche (Il Mulino, 2022), ho sostenuto che uno degli elementi più importanti della politica contemporanea sia l’ascesa dell’antiglobalismo come dimensione centrale di strutturazione del conflitto politico nelle democrazie occidentali. Cioè, proprio quei paesi che hanno creato e sostenuto la globalizzazione e le sue strutture politiche e istituzionali internazionali, sono attraversati da un’ondata antiglobalista che non ha precedenti.

Certo, l’antiglobalismo è sempre stato presente in queste democrazie. Tuttavia, ciò che segna una discontinuità radicale rispetto al passato è che l’offerta politica antiglobalista – i partiti e i leader che promuovono politiche incentrate sulle categorie tradizionali della sovranità nazionale contro i vincoli della globalizzazione – non sono più relegati ai margini di questi sistemi politici ma si sono fatti in molti casi maggioranza e governo, imprimendo il loro marchio sulle politiche di questi paesi e modificando la struttura stessa dei rispettivi sistemi politici.

La severità delle crisi ingenerate dalla pandemia e dalla crisi Ucraina rischia di farci dimenticare che non è da ora che è in atto un ridimensionamento della globalizzazione e della cornice istituzionale entro la quale si inscrive. Ben prima che scoppiassero pandemia e guerra l’amministrazione statunitense, guidata dal presidente Trump, decideva di iniziare un boicottaggio sistematico dell’Organizzazione mondiale del commercio, iniziava una guerra commerciale con Cina e Unione europea, si sfilava dall’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici e dall’Accordo di partenariato transpacifico e supportava l’antieuropeismo.

E, ancora, la Brexit e il successo straordinario dei partiti populisti, antiglobalisti e anti-europeisti precedono pandemia e guerra. I leader e le politiche antiglobaliste, poi, sono solo la punta dell’iceberg di un fenomeno che da almeno un decennio attraversa le società occidentali in profondità abbracciando l’opinione pubblica, influenzando le preferenze elettorali dei cittadini e, in ultima istanza, costituendo una domanda politica latente che ha contribuito a spostare il baricentro di questi sistemi politici in senso antiglobalista.

Ironia della sorte, tutto ciò avviene nel momento in cui si materializzano tutte le condizioni che avrebbero dovuto condurre alla “fine della storia”: nel momento in cui il livello di interdipendenza economica globale dovuto all’emergere ed espansione delle catene globali del valore non è mai stato così alto, quando il numero di democrazie è al suo massimo storico e in un ambiente internazionale caratterizzato da un’altissima densità di istituzioni internazionali.

Distribuzione del potere

L’impressione che pandemia e crisi Ucraina produrranno effetti di ridimensionamento della globalizzazione che sono destinati a perdurare, si fonda sulla convinzione che esse si innestano e rafforzano le trasformazioni strutturali che costituiscono le condizioni permissive dell’ascesa dell’antiglobalismo. Queste trasformazioni sono due e sono strettamente connesse tra loro: il cambiamento strutturale nella distribuzione del potere nel sistema internazionale che ha indebolito la leadership egemonica statunitense, e le crescenti vulnerabilità socio-economiche ingenerate nelle democrazie occidentali dalla sempre più pervasiva esposizione alla competizione economica internazionale. 

Partiamo dalla prima questione. La globalizzazione, almeno così come l’abbiamo conosciuta negli ultimi trent’anni, sembra destinata a ridimensionarsi per il semplice motivo che il disimpegno statunitense dal ruolo di guida politica della globalizzazione, processo già in atto da almeno un decennio, sembra destinato a protrarsi nel tempo.

La globalizzazione non si è materializzata in un vacuum politico ma si è sviluppata all’interno di un ordine politico e istituzionale definito in termini di potere e incentrato sulla volontà, poiché era nel suo interesse, e sulla capacità, poiché disponeva delle risorse necessarie, della leadership egemonica statunitense.

Promuovendo regole e istituzioni che incentivassero gli stati a ridurre le barriere ai reciproci scambi commerciali, ai flussi di investimenti e ai movimenti di capitali, nonché fornendo un mezzo di scambio internazionale condiviso, gli Stati Uniti hanno giocato un ruolo chiave per la graduale e costante espansione della globalizzazione economica nel campo occidentale nel Secondo dopo-guerra.

Con la caduta del muro di Berlino poi, gli Stati Uniti si sono fatti promotori di una trasformazione di quello che era stato un ordine economico confinato al capo occidentale in un ordine pienamente globale. E, tuttavia, quello stesso ordine che era stato creato ed esteso a livello globale come strumento di proiezione internazionale degli interessi economici e politici degli Stati Uniti è divenuto lo strumento su cui si è ancorata l’ascesa di quelle potenze che oggi li sfidano. Paradossalmente, questa trasformazione che si accompagna a, ed è funzione del fatto che, gli Stati Uniti si sono trovati ad agire come “superpotenza solitaria”, ha creato anche le premesse per quel cambiamento strutturale nella geografia della distribuzione del potere economico globale che ha il suo epicentro nell’ascesa della Cina, e dell’intero continente asiatico, come piattaforma centrale nelle reti globali di produzione, commercio e distribuzione di beni e servizi.

Tutti gli indicatori del potere economico mostrano che, in termini relativi, Stati Uniti e paesi europei hanno perso terreno a favore della Cina e di altre potenze emergenti. Lo spostamento in direzione più marcatamente anti-globalista del baricentro della discussione politica statunitense su come debba essere declinato l’interesse nazionale va compreso nell’ambito di questi mutamenti strutturali. Insieme alla consapevolezza che lo status quo ha generato vantaggi asimmetrici per i rivali, e quindi, un’erosione del proprio potere relativo, si è imposta una riflessione sul modo in cui intervenire per cambiare le regole di un gioco che ha prodotto questi esiti.

Non è un caso che gli elementi di continuità tra le amministrazioni Trump e Biden siano molteplici. Essi si inseriscono nel solco di una tendenza di lungo periodo nella politica estera statunitense, si pensi al cosiddetto “pivot to Asia” inaugurato dalla presidenza Obama, che ha visto gli imperativi della competizione e del contenimento del rivale cinese prendere gradualmente il sopravvento sulla necessità di garantire un supporto incondizionato all’ordine liberale internazionale. Modificando le condizioni strutturali che erano alla base dell’ordine internazionale liberale, il declino egemonico statunitense ha fornito la principale causa permissiva per l’emergere dell’antiglobalismo, nella misura in cui ha creato le condizioni per un disimpegno di lungo termine da quell’ordine internazionale liberale che gli Stati Uniti stessi hanno voluto, creato e sostenuto negli ultimi settanta anni.

Competizione economica

In secondo luogo, e contemporaneamente, l’estensione su scala globale dell’ordine internazionale liberale ha comportato uno svincolamento definitivo dei processi di globalizzazione economica dalle logiche dell’ordine politico, determinando quindi la supremazia della logica della competizione economica su quella dell’ordine sociale.

Paradossalmente, proprio il tentativo statunitense di imporre un ordine economico incentrato sulle logiche del libero mercato su scala globale ha finito per creare non solo le condizioni per l’indebolimento della sua leadership, ma anche una diffusa contestazione sociale della globalizzazione stessa.

Una varietà di studi empirici dimostrano che esiste una correlazione robustissima tra alcuni fenomeni tipici della globalizzazione contemporanea – shock da importazioni cinesi, de-localizzazioni e automazione dei processi produttivi, e supporto per i partiti antiglobalisti nelle democrazie contemporanee. I meccanismi che sottendono questa correlazione sono ormai abbastanza chiari. La sempre più profonda integrazione nei mercati globali delle economie avanzate ha rotto il delicato equilibrio che aveva per lungo tempo garantito le esigenze della competizione economica e quelle dell’ordine sociale incardinate nel cosiddetto compromesso del liberalismo vincolato.

La globalizzazione contemporanea, come documentato ormai da una vastità di studi, ha allargato la platea dei “perdenti” e ridotto quella dei “vincenti”, impoverendo sempre di più le classi medie e aumentando vertiginosamente le disuguaglianze sociali nelle democrazie occidentali. Al contempo, proprio nel momento in cui ha creato una domanda crescente di politiche di welfare state che potessero offrire le necessarie protezioni e compensazioni sociali, la globalizzazione ha anche sistematicamente ridotto la capacità degli stati di estrarre le risorse necessarie per finanziarle, soprattutto rendendo difficile tassare il fattore produttivo più mobile, cioè il capitale.

La combinazione di crescenti vulnerabilità sociali e mancata promessa di redistribuzione, facendo venire meno la credibilità del compromesso del liberalismo vincolato fondato su uno scambio implicito tra globalizzazione e welfare state, ci dice molto del perché l’offerta politica antiglobalista abbia avuto questo successo nell’ultimo decennio.

Cambio d’epoca

È verosimile che pandemia e crisi Ucraina possano produrre un ridimensionamento strutturale della globalizzazione perché si inscrivono all’interno di, e al contemporaneamente intensificano, queste tendenze di lungo periodo. La sfida russa all’ordine di sicurezza europeo e il rafforzamento del legame con la Cina non potranno che accelerare il disimpegno statunitense dall’ordine liberale internazionale e spingerli a serrare i ranghi con gli alleati europei in una logica di confronto che si configura sempre più come un gioco a somma zero. Al contempo, gli effetti economici di queste crisi non potranno che rafforzare quelle vulnerabilità sociali di cui si alimenta l’antiglobalismo.

La combinazione tra questi shock e le preesistenti condizioni politiche internazionali e domestiche fa davvero pensare che quello con cui ci confrontiamo sia un cambio d’epoca, un periodo di passaggio tra un ordine in dissolvimento e uno che ancora deve materializzarsi.

Ciò non è necessariamente un male. Se è vero che l’antiglobalismo è il sintomo della difficile coesistenza tra globalizzazione, almeno cosi come è venuta a configurarsi negli ultimi trent’anni, sovranità e democrazia, un suo ridimensionamento potrebbe anche rivelarsi funzionale all’emergere di un nuovo ordine economico internazionale più politicamente sostenibile. E, tuttavia, la storia ci ammonisce circa i rischi che i momenti di ristrutturazione dell’ordine economico, che tendono a riflettere e influenzare una ristrutturazione dell’ordine politico, comportano.

Gli anni Trenta del secolo scorso, con tutte le differenze del caso, stanno lì a ricordarci, infatti, che vi è il pericolo che i costi economici e sociali che questa ristrutturazione inevitabilmente comporterà possano creare una rabbia e uno scontento talmente diffusi da sfociare in una crisi profonda della democrazia, nel nazionalismo e, infine nella guerra. L’Unione europea è, purtroppo, al centro di questa turbolenza perché è l’entità politica per la quale i costi di aggiustamento saranno verosimilmente più alti: la meno autonoma per quanto riguarda l’approvvigionamento di materie prime, la maggiormente integrata nelle catene globali del valore, la più debole politicamente.

Al contempo, proprio da come l’Ue e i suoi stati membri sapranno affrontare questi shock esogeni e le sfide collegate al cambio d’epoca che stiamo vivendo, passerà molto di come si configureranno le ristrutturazioni in corso e, di conseguenza, il nuovo ordine politico internazionale.


Il testo in queste pagine condensa i testi e le analisi contenute nel nuovo libro di Arlo Poletti, “Antiglobalismo. Le radici politiche ed economiche”, appena pubblicato per il Mulino.

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