All’Avana nessuno canta più Hasta siempre comandante. E se il ricordo del Che resiste, Casto è nell’oblio. La crisi economica pesa sulla popolazione, sempre più aperta nelle sue critiche al regime e che guarda agli Stati Uniti come promessa di futuro
Combattere a Cuba,
forse solo una canzone poté dire cos’era
il combattere a Cuba.
Pier Paolo Pasolini, la Rabbia, 1963
E dove è, cosa dice ancora, se lo dice, la canzone del Che Guevara, Hasta siempre comandante, l’essenza della Rivoluzione, se nemmeno qui nel locale dell’Avana dei Buena Vista social club, resi famosi dal film di Wim Wenders del 1999, la cantano più? I turisti la chiedono invano e dal palco i musicisti allargano le braccia, hanno un’altra scaletta da proporre.
Era anche l’apertura di ogni concerto nelle Case de La Trova, sparse nelle città e nei villaggi di Cuba, ma non se ne sente traccia e sopravvive nella testa dei nostalgici che la canticchiano tra sé e sé.
Castro dimenticato
Resiste l’immagine del Che sui muri, sui manifesti, sulle magliette colorate di rosso, sui contenitori dei sigari, ma si è tramutata in un’icona pop di cui si è dimenticato il contenuto. Il Che come Marilyn Monroe, potrebbe essere un attore, un profeta, un santone, una rockstar. Tutto il contrario di Fidel Castro che invece è praticamente escluso dal panorama pubblico, otto anni dopo la sua scomparsa. Al contrario del suo alter-ego, morto giovane e dunque dalla popolarità non corrotta dall’esercizio del potere, la longevità de “lìder màximo” è la sua dannazione della memoria.
Non c’è Castro nella Piazza della Rivoluzione dei suoi comizi fiume, ma la triade dai contorni illuminati anche di notte Ernesto Guevara-Camilo Cienfuegos-José Marti, il mito-eponimo, l’altro capo guerrigliero morto giovane e il padre della patria nella guerra di liberazione precedente, quella con la Spagna. Fidel compare in alcuni sporadici manifesti, invero piuttosto tristi, assieme al fratello Raùl e all’attuale presidente Miguel Dìaz-Canel con la scritta “Continuità”.
Come fosse caduto nell’oblìo, un reperto del passato, o fosse ancora ben presente il suo lungo regno però si preferisce occultarlo. In dodici giorni di viaggio lungo l’isola, un solo suo manifesto seppur gigantesco, sulla facciata di un edificio nella piazza di Cienfuegos, città patrimonio dell’Unesco, in occasione di una cerimonia pubblica in ricordo della liberazione, il 6 gennaio.
Gli occhi agli Usa
La gente distoglie lo sguardo dal passato, lo proietta nel futuro in cui vede solo gli Stati Uniti, una promessa di benessere, se non di felicità. Il grande nemico del socialismo al rum e al ritmo di samba è solo oltre un braccio di mare, la radio degli esuli di Miami la più ascoltata perché diffonde informazione controrivoluzionaria.
E pazienza se è l’America di Donald Trump, il presidente che nel primo giorno del suo mandato ha reinserito Cuba nella lista dei paesi sponsor del terrorismo da cui Joe Biden l’aveva tolta al crepuscolo della sua permanenza alla Casa Bianca, il 14 gennaio.
I gringos sono gli invocati possibili benefattori e a nulla vale la considerazione che li hanno tenuti perennemente sotto embargo dunque dovrebbero essere indicati come i primi responsabili della catastrofe economica. Ogni obiezione è respinta dalla furia distruttrice con cui si contesta il regime ormai ridotto allo stato larvale. Fino a gettare il bambino con l’acqua sporca.
L’embargo? «Una scusa per giustificare il malgoverno». Che però vi ha garantito un’aspettativa di vita media superiore agli altri paesi latino-americani grazie a una sanità che funziona. «Cosa campiamo di più a fare, ridotti in queste condizioni di povertà?». Avete pure avuto l’istruzione gratuita dalla scuola primaria fino alla laurea. «Grazie tante, poi non troviamo lavoro. E se poi lo troviamo, il salario è attorno ai quaranta dollari».
Nostalgie
Se un tempo le critiche si facevano sottovoce, lontano dalle orecchie lunghe dei severi custodi dell’ortodossia della Rivoluzione, oggi, se non proprio declamate sulla pubblica piazza, sono oggetto di conversazione aperta ai tavolini dei bar. Dove si possono ascoltare favole nere francamente iperboliche e inverosimili e però diffuse come verità accertare.
Il bersaglio preferito, la famiglia Castro. «Fidel? Ma lo sanno tutti che è lui il responsabile della morte del Che, non lo ha voluto aiutare quando ha tentato l’avventura militare in Bolivia. Ed è anche stato lui ad ordinare l’omicidio di Camilo Cienfuegos, scomparso con il suo aereo nell’oceano Atlantico. Fidel era geloso della fama del comandante del popolo come l’avevano soprannominato».
Ovviamente non è risparmiato nemmeno Raùl. «Ogni notte all’aeroporto dell’Avana arriva un aereo dalla Svizzera sui quale vengono caricati dei forzieri pieni del tesoro accumulato dai Castro e portato al sicuro». La conclusione: «Tanta manca poco. Raùl ha 93 anni. Quando non ci sarà più, arriveranno finalmente gli americani».
Quasi una sindrome di Stoccolma verso il potente vicino. Fino a giungere a una clamorosa retrotopia, a una nostalgia del passato che scavalca la Rivoluzione e si collega ai tempi del dittatore e generale Fulgencio Batista: «Sotto di lui Cuba era ricca, basta guardare quante belle ville ci sono a Miramar». Nel quartiere ricco dell’Avana, il luogo delle ambasciate, ci sono alcune centinaia di splendide dimore.
Difficile far convivere quella Cuba da copertina con il resto dell’isola. All’epoca di Batista gli abitanti erano circa sette milioni (ora poco più di undici), i dissidenti politici venivano massacrati senza ritegno, nelle campagne si moriva come mosche.
Meno del venti per cento della popolazione rurale aveva una forma di assistenza medica, la vita media era inferiore ai 60 anni (oggi è a 75 anni per i maschi e a 80 per le femmine). Nella capitale imperversava la mafia dei Lucky Luciano e dei Meyer Lansky in combutta con i militari per il controllo dei traffici di droga, alcolici e del gioco d’azzardo.
Il tramonto del samba-socialismo
Questa era Cuba a saperla guardare con occhi dilavati da un pregiudizio che spazza via l’intera esperienza rivoluzionaria senza fare alcuno sconto. Altri tempi certo. E oggi il cubano medio reclama il diritto ai beni primari e anche ai voluttuari, al consumismo propagandato dall’immaginario hollywoodiano.
La crisi economica, evidente, è il potente detonatore del malcontento che annuncia la fine prossima del samba-socialismo che ha esaurito ogni spinta propulsiva, lasciato solo dai possibili partner dopo la caduta dell’Unione Sovietica e condannato dalla cartina geografica. Il colpo di grazia lo ha dato il Covid che ha ridotto il numero dei turisti portatori di valuta pregiata oltre alla scomparsa degli americani dopo le timide aperture durante Obama che avevano acceso le speranze di un meno ostile vicinato.
Se si esce dal circuito parallelo dei privilegiati stranieri, gli scaffali dei negozi sono desolatamente vuoti, la gente insegue gli europei e i canadesi venuti a godere dello splendido mare chiedendo non solo un’elemosina ma soprattutto “paracetamolo”, visto che nelle farmacie scarseggiano i medicinali di base.
Nei quartieri poveri, oltre alla prostituzione imperversa la pedofilia (Fidel aveva cercato di combatterle con una battente campagna). Chi scrive è stato testimone di un vecchio bianco che amoreggiava con due sorelle poco più che bambine in un locale. La richiesta al titolare del ristorante di chiamare la polizia si è infranta contro la desolante risposta: «Se lo faccio, mi riempiono di botte i parenti».
Di mattina Fidel compare ancora sugli schermi della tv di Stato che ripropone i suoi comizi in bianco e nero. E pare il residuato di un’epoca lontana, le sue parole non cantano né incantano più. Esattamente come le canzoni colonna sonora dei temi suoi. Pasolini, nella Rabbia dice anche: «Morire a Cuba, solo una canzone poté dire cos’era il morire a Cuba». Oggi l’inno-manifesto di Cuba è una struggente e bellissima canzone d’amore messicana: Bésame mucho. È quella che apre le serate al Buena Vista social club.
© Riproduzione riservata