Lo stereotipo del miliardario che finanzia la politica negli Stati Uniti è quello di un anziano petroliere o banchiere che vive o a New York, oppure in qualche località remota del Kansas o del Nebraska.

Dustin Moskovitz non è niente di tutto questo. È un millennial, nato nel 1984, originario della Florida, di classe media, figlio di uno psichiatra e di un’insegnante. Ha la fortuna di frequentare il corso di economia ad Harvard quando incontra Mark Zuckerberg, Chris Hughes e Eduardo Saverin, con i quali fonda Facebook.

Da Facebook alla politica

La sua vita ha una svolta. Da allora ha messo insieme un patrimonio di 24 miliardi di dollari, secondo le stime di Forbes.

Non era un programmatore, anzi, ma in pochi giorni ha imparato i rudimenti della disciplina tanto da diventare il capo programmatore e la figura apicale del dipartimento tecnico della giovane impresa che inizialmente aveva lo scopo di consentire agli studenti di Harvard di trovarsi più facilmente.

Abbandona Facebook relativamente presto, il 3 ottobre 2008, anche se il suo ruolo nella crescita del social network è stato riconosciuto dallo stesso Zuckerberg come decisivo.

Non sembra una gran mossa abbandonare una struttura alla vigilia della sua esplosione a livello europeo e mondiale.

Invece, con la fondazione di Asana, insieme al suo partner Justin Rosenstein, realizza un altro successo, con un’idea semplice: un applicazione dedicata al lavoro che eviti le lunghe catene di scambi di mail dove spesso si perde qualche passaggio. L’applicazione, lanciata sul mercato a partire dal 2011, è un successo, utilizzato da più di 107mila aziende nel mondo.

Fin qui la sua storia imprenditoriale.

A differenza però di altri suoi coetanei, Moskovitz ha sempre mostrato un forte interesse per la politica. Quella di matrice progressista, si capisce. Secondo i dati raccolti da OpenSecrets.org, nel 2020 è stato il settimo maggior finanziatore dell’intero ciclo elettorale, con la ragguardevole cifra di 50 milioni di dollari di donazioni complessive, personali o tramite Asana.

L’esordio

L’interesse per la politica, tralasciando le sue numerose imprese filantropiche contro la malaria e per l’istruzione dei bambini in Kenya e India, nasce nel 2014 in occasione la candidatura di Sean Elridge, marito del suo ex socio Chris Hughes, alla Camera dello stato di New York. La cifra non era immensa, 10mila dollari, ma è comunque la sua prima donazione politica.

Sfortunatamente per lui, il 2014 è stato un anno catastrofico per i democratici: il secondo midterm di Barack Obama ha tolto all’allora presidente la maggioranza al Senato e ha rafforzato quella dell’opposizione repubblicana alla Camera. Il seggio è rimasto al repubblicano Chris Gibson. I dem riusciranno a conquistarlo soltanto nel 2018 con Antonio Delgado, ma questa è un’altra storia.

Il 9 settembre 2016 posta su Medium un lungo commento che rappresenta, di fatto, il suo manifesto politico. Inizia fin dal titolo a dire cosa comporterà quest’impegno: una donazione di 20 milioni di dollari a Hillary Clinton e alle organizzazioni a sostegno dei democratici per aiutarli a battere Donald Trump.

All’inizio però specificava che lui non si sentiva un progressista a tutto tondo, pur avendo votato sempre per i democratici, ma che aveva sempre valutato i contributi positivi provenienti da tutti gli schieramenti.

Ciò detto, si ponevano due alternative: la candidatura di Clinton «con la quale non condivideva ogni punto», ma che andava nella giusta direzione di una maggiore diversità accompagnata da una crescente prosperità. Contro quella di Trump che invece puntava a un «vantaggio a somma zero» costruendo un guadagno di corto respiro contro il resto del mondo.

Anche in quel caso, non ha portato fortuna. Anzi, è emersa un’apparente discrepanza tra un sostegno economico massiccio e l’opposizione all’eventuale presidenza di Donald Trump. Nodo subito sciolto dicendo che l’ascesa alla Casa Bianca del tycoon newyorchese era un motivo sufficiente per superare queste eventuali remore.

La crisi abitativa

Bisogna notare però che a differenza di altri sostenitori dei dem è pienamente coerente su una questione scottante: la crisi abitativa, che nella zona di San Francisco ha raggiunto livelli inimmaginabili, con bilocali che costano più di tremila dollari al mese.

Mentre l’ultraprogressista Robert Reich, ex segretario del Lavoro di Bill Clinton, si oppone alla costruzione di alloggi popolari nel suo quartiere di Berkeley preferendo mantenere la classe lavoratrice alla larga da dove vive, Moskovitz invece nel 2018 si è mostrato molto favorevole alla costruzione tanto da firmare una petizione intitolata Yimby: letteralmente “sì nel mio cortile”, l’opposto di Nimby, a sostegno di un disegno di legge presentato nel Senato statale, che avrebbe limitato i poteri locali per favorire la crescita di nuovi quartieri residenziali.

Il disegno di legge non ha superato l’esame della commissione. Nonostante la maggioranza democratica, o forse proprio per quel motivo.

Nel 2020 ha fatto uno sforzo ulteriore: 45 milioni, di cui 24 direttamente a Joe Biden, con le stesse ragioni di quattro anni prima e un risultato migliore.

Pur sembrando molti, i 24 miliardi di Moskovitz non sono tantissimi: mostrano però cosa sia il potenziale di influenza del denaro in politica, specialmente quando questo potere avvantaggia il lato progressista della politica americana.

Ideali e mercato

La sua firma del Giving Pledge, il giuramento scritto lanciato da George Soros, però impegna lui e sua moglie Cari Tuna, ex giornalista del Wall Street Journal, a donare la maggior parte della loro fortuna per opere filantropiche (sulle quali Moskovitz non si è mai tirato indietro) e a buone cause. Come ad esempio l’elezione di politici democratici.

Questi nuovi miliardari, attenti all’inclusività per ragioni di mercato oltre che ideali, avranno un competitor dall’altro lato, oppure i repubblicani dovranno riconvertirsi nel partito dei “piccoli donatori”.

Come ha mostrato il caso della deputata Elise Stefanik, arricchitasi di fondi dopo aver dichiarato il proprio sostegno a Trump in occasione del primo impeachment, forse questa metamorfosi è già in atto. 

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