La legge della Repubblica popolare cinese che, di fatto perché di fatto, regola le questioni religiose all’interno delle organizzazioni ad hoc del partito comunista, contro l’autorità morale del Dalai Lama, il leader dei buddisti fuggito dal Tibet nel 1959, che domenica 6 luglio compie 90 anni.

Due visioni alternative e inconciliabili del mondo, quella di un partito che tutto ordina e omologa per il fine ultimo dello sviluppo socioeconomico e quella di una spiritualità fatta di rivelazioni e antichi rituali, si scontreranno sull’individuazione della reincarnazione di Tenzin Gyatso, guida dei buddisti lamaisti, concentrati soprattutto nella Regione autonoma del Tibet e nella provincia del Qinghai, in Cina, dove sono oltre 8 milioni, oltre che nelle diaspore in India, Nepal, Bhutan.

Il XIV Dalai Lama – su X, come si confà a una star globale qual è diventato – ha annunciato che «Ribadisco che il Gaden Phodrang Trust (la fondazione da lui stesso istituita, ndr) ha l’autorità esclusiva di riconoscere la futura reincarnazione; nessun altro ha tale autorità per interferire in questa questione». Qualche giorno prima Tenzin Gyatso aveva chiarito che ci sarà un suo successore e che si reincarnerà nel “mondo libero”.

Dichiarazioni intollerabili per Pechino. Il governo cinese ha infatti subito puntualizzato che «la reincarnazione del Dalai Lama deve seguire i princìpi del riconoscimento nazionale, del processo della “urna d’oro” e dell’approvazione del governo centrale, in linea con le tradizioni e le leggi religiose». Il riferimento è al rito utilizzato durante la dinastia Qing Qing (1644-1911), quando le reincarnazioni dei leader buddisti vennero riconosciute dalle autorità imperiali.

Religione “sinizzata”

Ma quella dell’attuale tulku (la reincarnazione di una serie di leader spirituali da oltre seicento anni) tornerà a essere oggetto di disputa tra Pechino e la leadership tibetana in esilio a Dharamsala. Dopo aver visto convivere un papa-papa e un papa emerito, potremmo presto vedere due Dalai Lama, uno apparso in sogno ai buddisti e rifugiato probabilmente in India, l’altro scelto dal partito in Tibet, per continuare a “sinizzare” il buddismo (come tutte le altre religioni), ovvero ad alterarne i princìpi e la pratica, per renderlo uno strumento delle politiche del partito. Un’operazione che con i buddisti tibetani si è rivelata più difficile rispetto ad altri popoli (ad esempio gli uiguri musulmani) per la loro maggiore coesione e per le ribellioni del 1959, degli anni Ottanta e del 2008.

La forza della compassione e della preghiera: è questo che alimenta il ciclo della rinascita dei buddisti tibetani. In base a questa credenza, quando una guida spirituale illuminata come il Dalai Lama muore, sarà in grado di scegliere il luogo e il momento della sua rinascita attraverso la forza della compassione e della preghiera.

Una dichiarazione di “risoluzione di gratitudine” pubblicata dai leader buddisti tibetani riuniti a Dharamshala mercoledì ha affermato che «condannano fermamente l’uso del tema della reincarnazione da parte della Repubblica Popolare Cinese per i propri vantaggi politici: non lo accetteranno mai».

Le rivolte

Fuggito dal Tibet dopo la rivolta scoppiata il 10 marzo 1959, dagli anni Settanta, il Dalai Lama ha sostenuto di non perseguire più l’indipendenza, ma un’autonomia “significativa” del Tibet, che consenta ai suoi abitanti di preservare la propria cultura, religione e identità. Per il suo impegno per l’approccio non violento della cosiddetta “via di mezzo” è stato insignito del Premio Nobel per la Pace nel 1989.

In quello stesso anno, dopo la morte del decimo Panchem Lama, l’autore della «petizione di 70 caratteri» contro le politiche di Pechino che Mao definì «una freccia avvelenata scagliata contro il partito da signori feudali reazionari», il Dalai Lama individuò la seconda autorità spirituale dei buddisti tibetani in un bambino di sei anni, Gedhun Choekyi Nyima, da allora scomparso dalla scena pubblica. Il partito lo sostituì con il suo Panchem Lama, Gyaltsen Norbu, che il mese scorso si è mosso dal suo monastero di Tashilhumpo, nella steppa tibetana, per incontrare Xi Jinping nell’ex giardino imperiale di Zhongnanhai, a Pechino, e giurare – come riportato dall’agenzia Xinhua  – «fermo sostegno alla leadership del Partito Comunista Cinese e salvaguardia con risolutezza dell’unità nazionale».

Una storia che potrebbe ripetersi per il nuovo Dalai Lama. Dopo l’esternazione su X, i tibetani restano abbottonatissimi. Samdhong Rinpoche, un alto funzionario dell’ufficio del Dalai Lama, ha dichiarato che nessuna informazione sulle procedure o sui metodi della sua reincarnazione sarà rivelata fino a quando non avrà luogo la successione.

Separatismo indebolito

Dal suo governo in esilio nella città indiana di di Dharamshala, il leader spirituale è riuscito a portare la causa tibetana all’attenzione internazionale. Tenzin Gyatso ha calamitato una serie di star, da Richard Gere a Sharon Stone, da Paris Hilton a Roberto Baggio, ma i disordini in Tibet nel 2008 e le proteste che, quello stesso anno, ostacolarono il viaggio della fiaccola olimpica verso Pechino, non hanno contribuito a farle compiere negli ultimi anni significativi passi avanti.

Al contrario la regione, formalmente “autonoma” è ormai in parte normalizzata, tanto che – chiusa interamente più volte in passato – salvo alcune aree è ormai visitabile dai cinesi e dai turisti stranieri, che possono raggiungerla comodamente (al netto dei fastidi causati dall’altitudine) sia in aereo sia con la ferrovia Qinghai-Tibet inaugurata l’anno scorso, ultima prova della perizia ingegneristica e dello sviluppismo cinese, secondo cui la diffusione delle religioni e i separatismi si contrastano anzitutto col progresso. Nei prossimi giorni verranno installate due gigantesche turbine idroelettriche in grado di produrre 500 megawatt di energia per la regione.

Le istanze indipendentiste sono indebolite. L’anno scorso l’amministrazione di Joe Biden ha varato il Promoting a Resolution to the Tibet-China Dispute Act, una legge secondo la quale «i funzionari della Repubblica Popolare Cinese e del Partito Comunista Cinese sono storicamente inaccurati quando affermano che il Tibet fa parte della Cina fin dall’antichità». Ma Donald Trump, come il suo predecessore, si guarderà bene dal compiere qualsiasi mossa sostanziale su quella per Pechino rappresenta una questione interna.

A meno che la pretesa del Dalai Lama secondo cui spetterà soltanto ai buddisti di individuare il suo successore non venga accompagnata da improbabili disordini in Tibet, Pechino avrà gioco facile a celebrare per l’ennesima volta la «unità delle minoranze».

Infatti – come ha spiegato Ruth Gamble, esperto di storia tibetana presso l’università La Trobe di Melbourne – è già pronta una serie di lama reincarnati di alto livello formati da Pechino per collaborare col governo in Tibet. «Pechino li chiamerà tutti a contribuire a scegliere il Dalai Lama che vivrà all’interno del Tibet. C’è un piano a lungo termine per lavorare in questo senso», ha spiegato Gamble.

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