Basteranno le nuova sanzioni internazionali a condizionare le scelte di Vladimir Putin e a contenere l’espansionismo della Russia? La risposta è no, sulla base di quello che è successo negli ultimi otto anni e infatti mentre continua la retorica sulle ritorsioni economiche, molti paesi Ue hanno iniziato a inviare anche armi al governo di Kiev.

Nel 2014 la Russia viola per la prima volta l’integrità territoriale dell’Ucraina e si annette la regione della Crimea, con un conflitto mai davvero finito che ha causato almeno 13mila morti in otto anni.

Sia l’Unione europea che gli Stati Uniti hanno reagito con vari tipi di sanzioni, alle imprese, agli oligarchi, ai settori, ai singoli prodotti. Non sono servite praticamente a niente perché erano costruite per non funzionare, visto che cercavano al contempo di danneggiare l’economia russa ma anche di proteggere i settori per noi vitali, come quello dell’energia.

Nel 2014, dopo la guerra di Crimea e le sanzioni, l’economia russa rallenta, con un tasso di crescita dello 0,7 per cento che diventa poi recessione nel 2015 (-2 per cento), la più pesante in vent’anni.

La frenata non è da attribuire tanto alle ritorsioni internazionali, bensì dell’andamento del prezzo del petrolio che praticamente si dimezza tra 2014 e 2016 (da 98 dollari al barile a 43), per poi risalire lentamente.

Appena il petrolio si riprende, dal 2016 la crescita russa torna a stabilizzarsi all’1,5 per cento, completamente indifferente alle sanzioni. Secondo i calcoli del Fondo monetario internazionale, l’effetto del petrolio è tre volte maggiore rispetto a quello delle sanzioni sull’economia russa.

L’impatto stimato delle sanzioni è dello 0,2 per cento del Pil per ogni anno: appena 2,8 miliardi di dollari all’anno. Robetta, anche se la stima corretta potrebbe essere più alta perché alcune sanzioni hanno impedito alla Russia di accedere a tecnologie più moderne, soprattutto sull’estrazione di petrolio, che probabilmente ne hanno ridotto il potenziale di crescita nel lungo periodo.

Impotenti per scelta

Le sanzioni, quindi, sono inutili? Sì e no. L’effetto minimo dal punto di vista macroeconomico è voluto. Si tratta, sia dal lato americano che da quello europeo, di sanzioni mirate, non generalizzate. Quindi dovrebbero avere grande impatto su pochi soggetti e basso su altri, per colpire chi se lo merita – cioè i settori strategici e gli oligarchi vicini a Putin – e limitare le conseguenze sulla popolazione incolpevole. Il risultato paradossale è che Putin può cementare il consenso interno contro l’oppressore occidentale, riesce cioè a trasformare le sanzioni in strumenti di propaganda.

Certo, si potrebbero adottare provvedimenti generali capaci di indebolire l’economia russa così come è stato fatto con quelle di Venezuela e Iran. «C’è evidenza che le sanzioni americane contro la Russia potrebbero avere un effetto più ampio se applicate a bersagli economicamente significativi. Allo stesso tempo, questo significherebbe creare instabilità nei mercati finanziari globali e sollevare l’opposizione degli alleati degli Stati Uniti che hanno legami più forti con la Russia rispetto agli Usa», si legge in un dettagliato rapporto del servizio di ricerca del Congresso americano pubblicato a gennaio.

Inoltre, negli ultimi otto anni, dalla guerra di Crimea, «Putin ha preso le sue precauzioni per proteggere il suo paese: ha aumentato la dipendenza dell’Europa dal gas, ha aperto nuovi mercati per l’esportazione di gas in Cina e ha sviluppato una piattaforma per i pagamenti per compensare una possibile espulsione dal sistema Swift».

Anche la sanzione suprema, cioè l’esclusione dal sistema internazionale dei pagamenti Swift, che limiterebbe l’operatività delle istituzioni finanziarie russe, potrebbe non essere decisiva: difficile dire quanto siano efficaci le contromisure putiniane, ma certo la Russia si è posta il problema e ha sviluppato il suo System for Transfer of Financial Messages (Spfs) come alternativa allo Swift.

Sarebbe però un sistema che permetterebbe transazioni soltanto con gli altri paesi esclusi dai circuiti finanziari principali, come Iran e Venezuela, oltre che Bielorussia, Armenia, con una sponda però da parte della Cina. In ogni caso, al momento l’Ue è orientata a escludere soltanto alcune banche dallo Swift, non l’intero paese.

Dopo la Crimea

In this image made from video provided by the Border Service of Ukraine, military vehicles pass a control point at the Armyansk checkpoint at the Ukraine-Crimea border, Thursday, Feb. 24, 2022. The Ukrainian border service on Thursday released video it said showed Russian military vehicles crossing its border from Crimea. In a statement, it added that "the movement of military equipment from the peninsula is being recorded across the administrative border". (Border Service of Ukraine via AP)

Dopo l’annessione della Crimea, gli Stati Uniti hanno sanzionato almeno 445 individui, entità, navi, e aerei con l’Office of Foreign Asset Control, tutti soggetti considerati legati alla destabilizzazione e all’invasione dell’Ucraina. Tra i bersagli ci sono ministri, funzionari, capi di aziende legate alla politica come Rosneft, Gazprom, le banche Vtpb e Gazprombank, la società tecnologica Rostec. In gran parte gli stessi obiettivi delle nuove sanzioni approvate nei giorni scorsi dopo la nuova invasione dell’Ucraina.

A queste si accompagnano sanzioni settoriali analoghe a quelle approvate dall’Unione europea: restrizioni ai prestiti e agli investimenti nelle tre grandi compagnie energetiche controllate dallo stato russo, divieto di vendita di tecnologia che possa essere usata anche per applicazioni militare, limiti anche alla condivisione di tecnologie per l’estrazione di petrolio che, queste sì, hanno indebolito la Russia in uno dei suoi settori cruciali.

L’Unione europea ha alcuni limiti in più rispetto agli Stati Uniti, perché non può sanzionare soggetti che abbiano una doppia cittadinanza, russa e di qualche paese membro dell’Ue. Ci sono altre differenze, piccole ma cruciali: gli Stati Uniti sanzionano specifiche aziende, come Gazprom, l’Ue cerca approcci meno mirati, più orizzontali, che rendano la sanzione conseguenza di un comportamento oggettivo (per esempio l’operatività in Crimea).

Inoltre, dopo il 2014 gli Stati Uniti hanno applicato i limiti alla vendita di tecnologia dual use, quindi con possibile impiego militare, anche ai contratti in essere, l’Ue soltanto a quelli futuri per non creare problemi alle imprese europee in affari con Mosca.

Anche se alcuni stati membri, di loro iniziativa, hanno cancellato contratti già avviati: la Francia ha stracciato un contratto per la vendita di due elicotteri Mistral, la Germania ha cancellato il progetto di un centro di addestramento da 155 milioni di euro.

Sull’energia, l’Ue è stata decisamente più permissiva: nonostante le critiche per l’annessione della Crimea, i contratti sono rimasti validi e nessuno ha messo in dubbio la legittimità degli approvvigionamenti dai tubi russi. Gli Stati Uniti hanno concesso soltanto un breve periodo di aggiustamento e poi soltanto i contratti approvati dall’Ofac, l’Office of Foreign Asset Control potevano sopravvivere.

Nel report del Congresso americano sulle sanzioni, a questo proposito si legge: «La differenza ha portato, per esempio, la compagnia italiana Eni a continuare la sua esplorazione nel mar Nero in partnership con la società petrolifera controllata dallo stato russo Rosneft, mentre l’americana ExxonMobil si è ritirata dalle sue joint venture con Rosneft nel 2018 dopo che nel 2017 non era riuscita a ottenere il permesso del dipartimento di Stato per continuare i suoi progetti nel Mar Nero”.

In quegli anni al vertice degli Stati Uniti, vale la pena ricordarlo, c’era Donald Trump, cioè un presidente arrivato alla Casa Bianca anche grazie ai sabotaggi elettorali orchestrati dai servizi segreti russi nella campagna elettorale del 2016.

Eppure perfino lui è stato un po’ più severo nei confronti di Putin dopo la Crimea rispetto ai governi europei, inclusi quelli a parole molto filo-atlantici di Matteo Renzi (2014-2016) e Paolo Gentiloni (2016-2018). In ogni caso, neppure gli Stati Uniti hanno osato mettere sanzioni specifiche sulla produzione di gas, men che meno l’Ue che dipende dai tubi russi.

Reazione a catena

Nei rari casi in cui le due potenze occidentali sono arrivate vicino a toccare veri interessi di Putin, si sono subito divise. Come nel caso di Rusal, una compagnia russia di alluminio. Gli Stati Uniti nel 2018 decidono di colpire Rusal e Putin si trova a contare su alleati imprevisti nel cercare di far cambiare idea a Trump: i governi di Francia, Germania, Italia e Irlanda.

Rusal era ed è il più grande produttore mondiale di alluminio fuori dalla Cina: una legge di Trump, il Countering America’s Adversaries Through Sanctions Act, impedisce di fatto alle imprese europee di fare affari con aziende sotto sanzioni americane, quale appunto Rusal.

Questo provvedimento, oltre a minacciare la fabbrica di Rusal in Irlanda, a Limerick, metteva a rischio la fornitura di materia prima per grandi gruppi europei del calibro di Airbus, Volkswagen e Bmw. Il primo effetto collaterale della mossa americana, inoltre, è un aumento del prezzo dell’alluminio del 30 per cento, cosa che spiazza i conti economici di aziende in tutta europa.

Il presidente francese Emmanuel Macron apre allora una processione di leader che, a turno, vanno a Washington per chiedere a Trump di salvare Rusal e quindi le imprese che ne dipendono.

Tump e il suo allora segretario al Tesoro Steve Mnuchin concedono soltanto permessi temporanei per fare affari di sei mesi in sei mesi, col risultato che i governi europei si trovano ostaggio di Putin da una parte di Trump dall’altra. Finisce che Washington toglie le sanzioni quando l’oligarca Oleg Deripaska cede il controllo di Rusal e si fa da parte.

Di Rusal si è parlato anche in un’imbarazzante riunione nei giorni scorsi, rivelata da Bloomberg. Appena una settimana prima dell’invasione dell’Ucraina, a Mosca si è tenuto un incontro tra «alti funzionari italiani e russi per discutere potenziali investimenti da centinaia di milioni di euro».

I progetti in discussione riguardano Ansaldo Energia e la russa NordEnergoGroup, ma anche gli investimenti dell’Eni in Slovacchia, che coinvolgono la banca russa Sberbank come finanziatrice della società energetica Slovenske Elektrane, e poi, appunto, un investimento di Rusal nell’impianto che possiede in Sardegna, attraverso la controllata Eurallumina.

Le stesse dinamiche si sono viste negli ultimi anni intorno al gasdotto Nord Stream 2, che porta il gas dalla Russia in Europa senza passare dall’Ucraina, un progetto caro tanto a Gazprom quanto alla Germania (l’ex cancelliere Gerhard Schroeder presiede il “comitato degli azionisti”).

Il neo-cancelliere Olaf Scholz ha appena annunciato di voler prendere tempo per riconsiderare il progetto, ma già nel 2019 e nel 2020 c’erano stati dei rallentamenti dovuti al fatto che il Congresso degli Stati Uniti aveva approvato sanzioni relative al gasdotto.

All’ultimo giorno del suo mandato, per dare un segnale, Donald Trump ha imposto sanzioni alla nave Fortuna che per conto di Gazprom stava lavorando al completamento di Nord Stream 2.

Le sanzioni sono state confermate dall’amministrazione Biden a febbraio e maggio 20201, ma sul fronte europeo il progetto ha continuato senza impedimenti fino all’invasione dell’Ucraina da parte di Putin la scorsa settimana e ora è soltanto congelato, pronto a tornare operativo appena la tensione scenderà.

Gli oligarchi

A man looks at a shirt with a picture of Russian President Vladimir Putin displayed on Belgrade's main pedestrian street, Serbia, Saturday, Feb. 26, 2022. Besides Belarus, Serbia is the only other European state that has so far failed to specifically denounce the Russian intervention in Ukraine or join international sanctions against Moscow. (AP Photo/Darko Vojinovic)

La distanza tra gli interessi strategici di Unione europea e Stati Uniti, insomma, ha finora impedito di avere un approccio davvero comune ed efficace con sanzioni economiche volte a colpire l’economia russa nelle sue componenti cruciali.

In un intervento su Le Monde, l’economista Thomas Piketty suggerisce di lasciar perdere e concentrarsi su un approccio che gli sembra molto più efficace: «E’ tempo di immaginare sanzioni di tipo nuovo, mirate agli oligarchi che hanno prosperato grazie al regime».

Da studioso delle disuguaglianze, Piketty fa subito due conti: «Si potrebbero colpire le persone che hanno almeno 10 milioni di euro investiti in immobiliare titoli finanziari, all’incirca 20.000 persone in base ai nostri dati, che rappresentano lo 0,02 per cento della popolazione russa». I paesi occidentali dovrebbero applicare una tassa sulla ricchezza del 10 o 20 per cento sui loro asset «e congelare il resto per precauzione».

Piketty è sempre stato più forte nell’analisi che nella proposta, si rende conto anche lui che un simile intervento non verrà mai applicato. E non tanto perché difficile da rendere compatibile con leggi e costituzioni che proteggono i diritti di tutti, perfino degli oligarchi russi, ma soprattutto perché per tassare le ricchezze bisognerebbe prima censirle.

Ci vorrebbe un “registro finanziario globale” che monitori chi possiede cosa o dove, «ma i ricchi occidentali temono che questo grado di trasparenza, presto o tardi, si rivolterebbe contro di loro». Con tanti saluti al progetto di Piketty.

In realtà questo tipo di sanzioni vengono già applicate dalla crisi del 2014, anzi, gli Stati Uniti le applicano a diverse persone fisiche russe per le più diverse ragioni (violazioni dei diritti umani, spionaggio, violazione delle regole stesse sulle sanzioni…). Ma non producono grandi risultati.

Il perché lo spiega Jeffrey J. Schott, del Peterson Institute, «colpire il cerchio ristretto di Putin sembra avere scarso effetto sul comportamento dei suoi membri o sul loro sostegno alle politiche della Russia: troppo spesso i bersagli delle sanzioni si limitano a spostare i loro asset là dove gli Stati Uniti non possono raggiungerli».

Se poi la ricchezza di questi oligarchi è legata al prezzo delle materie prime prime, più sale la tensione con i paesi clienti, più in alto va il prezzo di gas e petrolio e dunque le loro disponibilità economiche non congelate aumentano invece di diminuire. Inoltre, il governo russo interviene sempre a sostegno di chi finisce nel mirino degli Stati Uniti o dell’Unione europea: prestiti agevolati dalla banca centrale alle imprese, garanzie statali ai contratti, ricapitalizzazione pubblica delle banche indebolite.

Inoltre non è ben chiaro perché colpire i parenti dei funzionari vicini a Putin dovrebbe influenzare le strategie militari: tra i bersagli elle nuove sanzioni annunciate dal segretario al Tesoro Janet Yellen, per esempio, c’è Ivan Sechin, figlio di Igor Sechin, amministratore delegato di Rosneft. Ivan è un “vice capo dipartimento” di Rosneft, difficile che il suo disagio possa turbare Putin e farlo ricredere dall’opportunità di invadere l’Ucraina.

Gli Stati Uniti sono consapevoli che non può bastare. Per questo stanno valutando misure più drastiche, come l’espulsione delle banche russe dallo Swift, combinata con sanzioni alla banca centrale russa.

L’effetto delle due misure insieme impedirebbe alla banca centrale di spendere le sue riserve per arginare la caduta del rublo, ormai precipitato a 0,011 euro (valeva il doppio prima della invasione della Crimea nel 2014).

Come ha ben riassunto l’analista Noah Smith, gli oligarchi russi possono vivere tranquilli con la loro villa in Toscana sequestrata e i loro conti congelati, ma non possono prosperare con un’economia russa al collasso.

L’unica vera domanda, avverte Noah Smith, è questa: «Siamo pronti a correre il rischio di causare un disastro economico in Europa e a scatenare il caos in un paese con 1456 armi nucleari solo per mettere più pressione su Putin e spingerlo a fermare una guerra che già non si sta mettendo molto bene per lui?».

© Riproduzione riservata