Il 3 novembre scorso mi trovavo a Washington per seguire e commentare le elezioni americane per la televisione italiana. Conclusi la diretta verso l’una e mezza di notte e camminai velocemente per le strade della città. Eravamo stati avvertiti del pericolo di disordini. Quella sera a farmi entrare in albergo, a pochi passi dalla Casa Bianca e dalla via intitolata al movimento Black lives matter, fu una guardia privata completamente vestita di nero e con il volto coperto da un passamontagna.

Quando mi vide comparire davanti alla porta d’ingresso mi puntò d’istinto il fucile contro. E solo dopo aver controllato il documento d’identità mi lasciò entrare. In quei giorni Washington era in assetto da guerra. Tutte le vetrine, comprese quelle del mio albergo, erano state ricoperte da assi di legno. C’era polizia ovunque, elicotteri che sorvolavano la città a bassa quota e una recinzione in ferro che circondava tutta l’area della Casa Bianca. Ci preparavamo al peggio ma nulla accadde quella sera né nei giorni successivi. Il 7 novembre, con la fine dello spoglio delle schede in Pennsylvania, Biden veniva dichiarato vincitore. La mattina dell’annuncio ero già rientrata a New York. La città era blindata da giorni per paura di disordini e violenze ma nulla accadde, solo balli e canti in strada da parte dei sostenitori del nuovo presidente.

Due mesi dopo, il 6 gennaio 2021, il Congresso americano si preparava a ratificare la vittoria di Biden, un voto che in passato è sempre stato poco più di una formalità. Sapevamo che alcuni parlamentari repubblicani si preparavano a votare contro la ratifica, un fatto senza precedenti nella storia di questo paese – alla fine 139 deputati e 8 senatori votarono contro. E sapevamo che Trump avrebbe partecipato a una manifestazione con migliaia di sostenitori per ribadire che la vittoria gli era stata rubata e chiedere pubblicamente al suo vice, Mike Pence, di non ratificare il voto.

Quello che non sapevamo, e che è emerso solo in questi giorni, è che l’Fbi aveva avvertito l’amministrazione dei disordini che si preparavamo a Washington – in un rapporto avevano utilizzato persino la parola guerra. Non sapevamo che i sostenitori del presidente avevano in mano la mappa del palazzo del Congresso, che conoscevano i diversi di punti di accesso e i tunnel sotterranei dell’edificio. Non sapevamo che alcuni di loro avevano condiviso sui social media il folle piano di torturare e giustiziare alcuni parlamentari, anche repubblicani avversi al presidente.

Non sapevamo che i sostenitori di Trump, aizzati dal presidente stesso durante la manifestazione, si sarebbero diretti verso il Campidoglio e sarebbero entrati nel palazzo vandalizzando la Camera e il Senato ed entrando negli uffici delle più alte cariche dello stato. Né avevamo capito, guardando le immagini dei rivoltosi vestiti da vichinghi, mentre scattavano selfie e portavano via leggii, che non era affatto una protesta fuori controllo né una manifestazione folkloristica di dubbio gusto, ma un attacco alla democrazia.

I militari accampati

Una settimana e cinque morti dopo, la Camera dei deputati è di nuovo in sessione. Centinaia di militari della Guardia nazionale sono accampati nel palazzo del Campidoglio. Le immagini li ritraggono mentre dormono sdraiati sui marmi bianchi della sala della Rotunda, sotto le statue neoclassiche e i quadri ottocenteschi che hanno i volti solenni dei padri fondatori. Si vota per l’impeachment del presidente Trump, il secondo in meno di un anno, questa volta per crimini contro lo stato. Nessun presidente nella storia di questo paese hai mai subito due volte la messa in stato d’accusa. Tutti i deputati democratici, e solo dieci repubblicani, hanno formalmente accusato il presidente di istigazione all’insurrezione.

Vivo negli Stati Uniti da vent’anni. Ho vissuto l’11 settembre – passando la notte nel pronto soccorso di un ospedale – i giorni terribili dell’invasione dell’Iraq, il fallimento di Lehman Brothers e la crisi finanziaria del 2008, la pandemia a New York e i saccheggi durante le proteste dei Black lives matter, ma mai prima d’ora avevo visto la democrazia americana scossa dalle fondamenta. Mai avevo visto una transizione del potere macchiata di sangue. Mai avevo temuto che seguaci di QAnon, suprematisti bianchi e milizie armate (in questo paese sono decine di migliaia) potessero attaccare i palazzi delle istituzioni – sul web ora minacciano non solo Washington ma tutte le capitali dei cinquanta stati americani e le abitazioni private dei parlamentari. Mai avevo visto membri delle forze dell’ordine accusati di sedizione per aver partecipato all’attacco al Congresso. Mai avevo visto i preparativi per l’inaugurazione di un presidente (Biden è il quarto presidente della mia vita americana) durante il processo di impeachment al suo predecessore.

Cambiare o perire

«Quando una nazione ha raggiunto questo punto o cambia le sue leggi e i suoi costumi o perisce», scriveva Alexis de Tocqueville in La democrazia in America, un libro che lessi durante il primo anno di università quando non sapevo ancora che in questo paese avrei vissuto la gran parte della mia vita adulta.

È lungimirante condannare Trump? Il suo processo ritarderà l’approvazione del gabinetto di governo di Biden da parte del Senato americano? Acuirà lo scontro tra repubblicani e democratici al Congresso? Renderà Trump una vittima? Rafforzerà il sostegno ancora fortissimo che ha nel paese? Lacererà ancora di più la società americana?

Se anche Trump venisse condannato dai due terzi dei senatori (cosa niente affatto scontata, ai democratici serve il voto di 17 repubblicani) e poi estromesso con un secondo voto dalla possibilità di correre ancora alle elezioni, il Trumpismo finirà o diventerà una costante della politica americana? Cosa accadrà al Partito repubblicano, ci sarà una scissione? Finiranno le violenze dopo l’inaugurazione del nuovo presidente o i miliziani e i seguaci di QAnon continueranno a ordire attentati trasformandosi definitivamente in terroristi? 72 ore dopo che Twitter e Facebook avevano cancellato gli account di Trump, 25 milioni di persone hanno scaricato l’applicazione Telegram.

Lo stesso è avvenuto per Signal, un’altra applicazione criptata. I servizi segreti americani dicono che sia lì che ora si organizzano gli scontri. I Proud Boys, un gruppo armato a cui il presidente chiese di “tenersi pronti,” hanno una chat con migliaia di partecipanti su Telegram. Ci aspettano mesi di violenze? Confesso che non so rispondere a nessuna di queste domande. Sapevo che in questo paese affrontavamo una crisi sanitaria ed economica senza precedenti. Sapevo che eravamo testimoni dei più importanti scontri razziali dal movimento per i diritti civili degli anni Sessanta. Non sapevo che attraversavamo anche una crisi democratica. Ha ragione Tocqueville, o ripensiamo alcune regole e cambiamo alcune dinamiche della vita politica e sociale di questo paese o la democrazia perisce.

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