Donald Trump insiste: «Si sono incontrati questa mattina». Nessun dettaglio, ma l’allusione è a un faccia a faccia che funzionari statunitensi e cinesi avrebbero avuto ieri per scongiurare una commerciale di lunga durata. Al contrario il governatore della banca centrale e il ministro delle finanze di Pechino, Pan Gongsheng e Fan Guoan, hanno partecipato a una riunione ministeriale del G20 senza scambiarsi una parola con i colleghi statunitensi. «Non ci sono vincitori nelle guerre commerciali o nelle guerre tariffarie, e le principali economie dovrebbero rafforzare la loro partecipazione al coordinamento delle politiche macroeconomiche e finanziarie internazionali» ha dichiarato oggi Pan a Washington, mentre a Pechino una riunione della leadership prometteva sostegno alle imprese in vista di una guerra commerciale di lunga durata.

La Cina resiste e Tariff Man rischia di perdere la faccia, così come la perderebbe Xi Jinping se parlasse con Washington mentre sui prodotti cinesi importati negli Usa sono in vigore dazi del 145 per cento e Trump continua con la retorica incendiaria compulsiva anti-cinese via Truth, il suo social media.

Per la cultura cinese “perdere la faccia” (diū miànzi) ha infatti un significato molto profondo ed è inimmaginabile per il leader del partito-stato, che dunque, al momento, non può autorizzare alcuna trattativa.

Ad esempio Trump continua ad accusare Pechino di “frodi non tariffarie” e ha messo la “manipolazione valutaria” in cima alla sua lista di otto punti sulle barriere commerciali dei paesi stranieri. Se Xi osasse avviare negoziati con gli Usa, Washington potrebbe chiedere che lo yuan venga scambiato liberamente sui mercati valutari, libera convertibilità che comporterebbe un apprezzamento della valuta della Cina, danneggiandone l’economia, dipendente dall’export (992 miliardi di dollari di surplus commerciale nel 2024).

Gli interessi di cui tenere conto

Negli ultimi giorni Trump ha affermato che «le tariffs al 145 per cento sono troppo alte e probabilmente non rimarranno così elevate». Secondo Chen Zhiwu, Pechino - a cui pure al momento il mercato Usa è chiuso a causa dei dazi astronomici - non ha alcuna fretta di trattare, nonostante l’apparente apertura della Casa bianca. Per il docente di finanza all’Università di Hong Kong «più Trump parla così, più dimostra quanto siano ansiosi gli Stati Uniti. Nel breve termine, è improbabile che la Cina abbia fretta di raggiungere un accordo, poiché la pressione sul team di Trump per porre fine alla guerra commerciale continuerà probabilmente ad aumentare nel tempo».

Trump insomma rischia di “perdere la faccia” più di Xi. Anche perché gli Stati Uniti sono pur sempre una democrazia liberale, nella quale il presidente non può non tener conto degli interessi di diversi attori, interni e internazionali. Ieri il ministro degli esteri svizzero, Ignazio Cassis, in visita a Pechino, ha parlato della necessità di costruire una “coalizione internazionale” con la Cina contro il protezionismo dell’amministrazione repubblicana.

Mentre l’ultimo World Economic Outlook pubblicato dal Fondo monetario internazionale, prevede che nel 2025 negli Usa il prodotto interno lordo crescerà dell’1,8 per cento (-0,9 per cento rispetto alla precedente stima di gennaio), e l’inflazione aumenterà del 3 per cento (un punto in più della stima di gennaio).

Il Fmi ritiene che le ripercussioni delle tariffs per gli stati Stati Uniti saranno più pesanti rispetto alla media mondiale. Il Fmi ha tagliato infatti la stima della crescita dell’economia globale nel 2025 di 0,5 punti percentuali, portandola al 2,8 per cento. Anche la Cina sarà danneggiata, ma in misura diversa e per certi aspetti minore rispetto agli Stati Uniti.

Da pari a pari

Per il World Economic Outlook (che non tiene conto del +5,4 per cento del Pil registrato nel primo trimestre) il prodotto interno lordo della Cina aumenterà quest’anno del 4 per cento (la precedente previsione era del 4,6 per cento), meno dell’obiettivo del governo di Pechino di una crescita “intorno al 5 per cento”.

Nel 2024 gli Usa hanno importato dalla Cina beni per 439 miliardi di dollari e la riduzione delle esportazioni verso gli States quest’anno peserà sull’economia cinese. Pechino tuttavia proverà a compensarne l’effetto attraverso un complesso di misure, tra le quali una svalutazione moderata dello yuan (che il 9 aprile scorso ha raggiunto il livello più basso rispetto al dollaro negli ultimi 17 anni) e l’aumento dell’export verso altri paesi, anzitutto i vicini asiatici.

Inoltre le ultime restrizioni varate sull’esportazione delle terre rare - di cui la Cina detiene il monopolio e che sono essenziali per l’industria hi-tech - nonché gli ordinativi di aerei Boeing che la Cina ha iniziato a cancellare, hanno mandato un messaggio chiaro a corporate America, i cui top manager sono stati ricevuti un mese fa da Xi e che stanno palesando la loro contrarietà alle politiche di Trump.

In definitiva, Pechino aspetta che Trump venga a più miti consigli, abbandonando la sua retorica da Tariff Man e trattando con la Cina da pari a pari.

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