Nel giorno dell’entrata in vigore dei dazi addizionali, del 10 per cento, sulle merci cinesi importate negli Stati Uniti, Pechino ha risposto con una salva di contro-tariffe e restrizioni all’export verso la prima economia del pianeta. È il segnale che la guerra commerciale può riaccendersi da un momento all’altro.

E, dopo la tregua firmata nel 2020 (un accordo sull’aumento delle importazioni dagli Usa, rimasto lettera morta a causa della pandemia di Covid-19) questa volta sarebbe più difficile fermarla, perché la Cina del 2025 è galvanizzata dal nazionalismo, mentre i suoi scambi internazionali dipendono meno dagli Stati Uniti.

Dopo aver annunciato un reclamo all’Organizzazione mondiale per il commercio e rispedito al mittente («quella del fentanyl è una crisi americana») l’accusa con la quale Donald Trump ha motivato il suo provvedimento di emergenza contro Cina, Messico e Canada, Pechino ha scelto di reciprocare. E così, a partire dal 10 febbraio prossimo, saranno imposti dazi del 15 per cento sulle importazioni dagli Usa di carbone e gas naturale e del 10 per cento su petrolio, attrezzature agricole, veicoli ad alte emissioni e pick-up.

Decretate anche restrizioni alla vendita agli Usa di una serie di minerali nonché un’inchiesta anti-monopolio su Google. Quasi tutti i servizi del gigante tecnologico Usa sono inaccessibili in Cina dal 2010, tranne la vendita di spazi pubblicitari agli inserzionisti, dalla quale, secondo i pochi dati disponibili, avrebbe ricavato 3 miliardi di dollari nel 2018.

La lista nera

Pechino ha anche inserito la compagnia PVH (proprietaria di Calvin Klein) e la società di biotecnologia Illumina nella sua lista nera. Si tratta di una rappresaglia che investe complessivamente una ventina di miliardi di dollari di importazioni annuali dagli Stati Uniti (circa il 12 per cento del totale), contro gli oltre 450 miliardi di dollari di beni cinesi presi di mira da Washington.

In attesa dell’annunciata telefonata tra Donald Trump e Xi Jinping, il messaggio è chiaro: la Cina vuole trattare, ma è pronta a rendere pan per focaccia, chiudendo i suoi mercati agli Usa.

D’altro canto per Trump le tariffs, più che un fine ultimo, rappresentano una minaccia, per costringere la Cina a ridurre il suo surplus commerciale nei confronti degli Stati Uniti, cresciuto da 279 miliardi di dollari nel 2023 a 361 miliardi l’anno scorso. Se mantenuti, i nuovi dazi sarebbero un’arma vecchia e spuntata, che per Washington potrebbe rivelarsi un boomerang.

Ad essere colpiti sono infatti, anzitutto, i milioni di americani che possono permettersi di fare shopping solo su Temu, Shein e altre piattaforme cinesi di commercio elettronico transnazionali, che sono passate da zero imposte per i pacchi con un valore fino a 800 euro (oltre 1 miliardo nel 2023), al 30 per cento (10 per cento più 20 per cento già riservato in precedenza a molti settori). Ma ci rimetterebbero anche le tante multinazionali a stelle e strisce che, come il colosso Procter & Gamble, importano dalla Cina materie prime e componenti per fabbricare in patria i prodotti finiti.

Una guerra commerciale - soprattutto se allargata ad altri blocchi - danneggerebbe comunque anche la Cina, in una fase in cui la domanda interna stenta a decollare e il paese continua a dipendere dal suo commercio estero, che l’anno scorso ha registrato un avanzo record di quasi 1.000 miliardi di dollari.

Regole internazionali

Pechino si è rivolta all’Omc perché vuole mostrare al mondo - soprattutto all’Unione europea, nel mirino del protezionismo trumpiano - di giocare secondo le norme internazionali. Diventata il primo partner commerciale di oltre 150 paesi, la Cina ha tutto l’interesse a difendere la globalizzazione, anche nella sua versione 2.0, ammaccata dal riemergere dei nazionalismi. Un messaggio ribadito il mese scorso durante il World Economic Forum di Davos dal vice premier, Ding Xuexiang, che ha affermato che la Cina vuole «promuovere un commercio equilibrato».

I leader cinesi si sono preparati a lungo al possibile ritorno di Trump. Rispetto al Trump I (2017-2021), quando la Cina era più legata agli Stati Uniti, i rapporti di forza sono cambiati. Le politiche di “de-risking” di Usa e Unione europea hanno convinto la Cina a guardare anche altrove.

Nel 2024 la crescita più rapida dell’export cinese è arrivata dai paesi dell’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico (12 per cento) e dall’America Latina (13 per cento), mentre quella verso le economie sviluppate è rimasta modesta: Stati Uniti (4,9 per cento), Ue (3 per cento), Regno Unito (1,2 per cento), Giappone (-3,5 per cento).

Secondo Ing, i dazi entrati in vigore martedì 4 febbraio avranno nel medio periodo un impatto negativo pari allo 0,3-0,4 per cento del prodotto interno lordo cinese.

La rincorsa

La seconda economia del pianeta ha accelerato la sua rincorsa alla prima esportando nuovi prodotti ad alto valore aggiunto, che hanno fatto impennare il suo surplus commerciale: auto elettriche, pannelli solari e batterie al litio hanno rimpiazzato elettrodomestici, mobili e abbigliamento sui gradini del podio del made in China più venduto all’estero.

Il primo aprile a Washington sarà resa pubblica la «revisione del rispetto dell’accordo economico e commerciale tra Cina e Stati Uniti», il cui esito dovrebbe servire all’amministrazione repubblicana per rimettere sul tavolo un accordo simile a quello strappato a Pechino dopo che, nel 2018-2019, il Trump I aveva imposto dazi per 370 miliardi di dollari sulle importazioni dalla Cina. Quell’intesa ufficializzata il primo gennaio 2020 prevedeva l’acquisto (in due anni) di 270 miliardi di dollari di prodotti statunitensi in più, rispetto al livello del 2017.

I dazi appena entrati in vigore e lo spauracchio di quelli del 60 per cento su tutte le merci importate negli Usa dalla Cina agitato in campagna elettorale servono a Trump proprio per riproporre il patto di cinque anni fa, che tuttavia sarà più difficile far accettare a una Cina alfiere della globalizzazione e meno dipendente dal mercato statunitense.

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