Più o meno trentatré anni fa, la democrazia liberale era stata dichiarata da Francis Fukuyama la «comune eredità ideologica dell’umanità», l’unico modello politico ed economico percorribile, legittimata da una solida vittoria su ogni sostanziale alternativa ideologica. Oggi, contestare l’argomentazione di Francis Fukuyama è un po’ come sparare sulla croce rossa.

Il ragionamento di Fukuyama potrebbe ancora essere rilevante – più rilevante di quanto suggerisca la sua versione trivializzata. Ciononostante, è vero che l’ordine internazionale liberale odierno non può essere considerato la configurazione indiscussa del mondo sotto il profilo politico ed economico.

Duplice crisi

Il libero scambio incontra resistenze non solo nei dazi e nelle nuove forme di protezionismo e mercantilismo, ma anche nella crisi del multilateralismo nella governance del commercio internazionale. Il big business continua a trarre vantaggio dalla persistente riluttanza dei governi a intaccare le esenzioni e i privilegi accumulati in trent’anni di deregolamentazione, generando livelli di disuguaglianza senza precedenti all’interno degli stati e tendenze oligopolistiche, specie nei settori più avanzati dell’economia globale. Istituzioni e normative internazionali vengono sabotati e aggirati, non più solo dagli stati paria, ma anche da nazioni tradizionalmente considerate colonne portanti della struttura organizzativa che sorregge l’ordine internazionale.

Come se non bastasse, settori sempre più ampi delle popolazioni degli stati occidentali hanno cominciato a manifestare stanchezza, per non dire diffidenza, rispetto ai princìpi e alle istituzioni liberali, indebolendo la legittimità, oltre che il funzionamento, del delicato meccanismo che equilibra mercati aperti e democrazia rappresentativa. Meccanismo che potrebbe persino ricevere il colpo di grazia dal progressivo declino di quella “classe media” che era stata il pilastro sociale dei sistemi politici ed economici ispirati al liberalismo a livello nazionale e internazionale.

La mia tesi è che questo insieme di problemi che interessa le democrazie contemporanee e l’ordine internazionale che le ha sorrette negli ultimi quarant’anni sia dovuto a una duplice crisi. Da un lato, le democrazie liberali stanno assistendo all’ascesa di movimenti neopopulisti. Dall’altro, si stanno dimostrando sempre più incapaci di coordinarsi tra loro a livello internazionale, soprattutto di fronte a sfide che imporrebbero invece un altissimo livello di coordinamento per essere affrontate: dal cambiamento climatico planetario alle pandemie, delle migrazioni all’inquinamento globale, dall’esaurimento delle risorse naturali ai modelli di consumo sostenibile alla minaccia dei sistemi autocratici.

Queste sono le due facce, intimamente connesse, di una stessa medaglia. Gli attori neopopulisti, infatti, non sono solo sprezzanti nei confronti dei valori, delle norme e delle pratiche che si sono affermati a livello globale dopo il 1945, ma attivamente impegnati a distruggerli in nome della sovranità. Tutto ciò sta accelerando la crisi dell’ordine internazionale liberale.

Il collasso del patto sociale

In realtà, il declino dell’ordine internazionale liberale è una vicenda più complessa, intrinsecamente connessa a una peculiare trasformazione degli stati liberaldemocratici. La tesi che propongo è che la crisi dell’ordine internazionale liberale risulti dalla rottura dell’equilibrio tra democrazia ed economia di mercato. Questo equilibrio è stato la premessa in base alla quale furono costruiti sia le democrazie liberali sia l’ordine liberale internazionale. Il collasso del “patto sociale” e dell’equilibrio tra capitale e lavoro che il welfare state – tanto nella sua versione americana e liberale quanto in quella europea e socialdemocratica – fu in grado di materializzare, è ciò che sta svelando le contraddizioni interne del capitalismo. Di conseguenza, sostengo, un nuovo progetto politico illiberale sta emergendo e si sta insinuando all’interno delle istituzioni democratiche.

La mia tesi è che a partire dagli anni Ottanta l’ordine internazionale liberale sia stato progressivamente sostituito dall’ordine globale neoliberale. (...) Il principale obiettivo di questo libro è quindi svelare ed esporre i nefasti meccanismi di tale sostituzione, e stabilire le premesse intellettuali per ripristinare e restaurare l’ordine internazionale liberale. Per raggiungere questo obiettivo, il libro si sviluppa lungo tre assi, ciascuno riferito a una tensione specifica: quella tra dimensione nazionale e dimensione internazionale, quella tra l’ambito economico e l’ambito politico e quella tra valori e interessi.

Ma il problema è legato anche alle diverse forze che hanno compromesso l’ordine internazionale liberale fin dalle decadi finali della Guerra fredda: le forze tecnocratiche che premono per risposte internazionali omologate alle crisi economico-finanziarie, minando il ruolo sociale dello stato nella politica interna; le forze sovraniste e populiste che impugnano il principio di sovranità come un’arma contro la cooperazione internazionale; le potenze autoritarie, come la Cina, che cercano di creare un nuovo ordine internazionale spogliato dalle norme liberali.

Stranamente, tutte queste forze si curano poco della relazione tra interessi e valori, come se non ci fosse nulla da dire a favore o a sfavore di essa, o come se la questione potesse essere ridotta a una semplice scelta: che cosa proteggere (o a che cosa soccombere). Per contro, uno dei punti principali di questo libro è che i valori – che possono divenire “comuni” solo come risultato di profonde discussioni, non per una scelta casuale e acritica – sono un possibile appiglio attorno al quale i frammentari e dispersi interessi dei molti – che sono più deboli, finché rimangono divisi – possono raccogliersi ed eventualmente prevalere sugli interessi concentrati e “intrinsecamente” più forti dei pochi. (…)

Il modello liberale

L’ordine internazionale liberale ha sempre avuto una duplice natura: da un lato, è stata la particolare configurazione d’ordine internazionale risultata dalle interazioni di una gamma di fattori strutturali e contingenze a livello degli attori in un contesto postbellico caratterizzato dall’egemonia degli Stati Uniti; d’altro canto, era un progetto politico pensato per tenere insieme nel modo più armonioso possibile la sovranità statale (nella sua versione liberaldemocratica) e l’economia di mercato (che comporta il libero scambio a livello internazionale). Quelle appena menzionate sono specifiche accezioni di tre concetti – ordine internazionale, sovranità ed economia di mercato – che hanno caratterizzato lo zenit della modernità politica. (…)

Se l’obiettivo immediato era creare un’arena internazionale governata non (solo) dalla forza ma (anche) dalla legge, l’obiettivo finale era dare al sistema internazionale la forma quanto più simile a quella di un sistema democratico nazionale. In un certo senso, questo richiedeva la protezione degli ordini sociali nazionali dalle influenze destabilizzanti provenienti dall’arena internazionale. La più destabilizzante tra queste era, ovviamente, la guerra.

L’ordine internazionale liberale era una struttura semplice e ingegnosa, fondata su cinque pilastri: la costruzione di un mercato libero e aperto per contenere gli eccessi della sovranità e la logica dell’anarchia internazionale; l’impiego della sovranità statale come contrappeso agli eccessi del mercato; l’erezione di una ricca e solida architettura di istituzioni internazionali per rendere possibile la cooperazione tra gli stati, ridurre il dilemma securitario e canalizzare la forza del mercato e la forza della sovranità statale, rendendo la cooperazione tra esse possibile e redditizia; l’inclusione politica, economica e culturale delle classi più basse – le masse – per rendere «popolari», e quindi rafforzare, le istituzioni liberali dell’economia di mercato e della democrazia rappresentativa; la creazione di una classe media forte e numerosa, pensata come la spina dorsale del sistema politico ed economico nazionale.

Le caratteristiche principali dell’ordine internazionale liberale – già tratteggiate da Woodrow Wilson alla fine della Prima guerra mondiale, ma pienamente definite da Franklin Delano Roosevelt e Winston Churchill nel corso della Seconda guerra mondiale – costituivano un compromesso tra il realismo politico e le aspirazioni trasformazionali del liberalismo. Da un lato, quest’ordine era basato sul riconoscimento della necessità della sovranità. Dall’altro, usava la diffusione del libero mercato non solo come mezzo per realizzare benessere e ricchezza in ambito economico, ma anche come barriera per contenere la logica della sovranità e le sue conseguenze rispetto allo sviluppo della cooperazione internazionale. Il mercato era visto come uno strumento efficace per controllare l’anarchia internazionale e il frequente ricorso alla guerra, una possibilità sempre accessibile per gli stati sovrani.

Forze del mercato

L’idea era “liberale” nel senso più classico del termine. L’espansione della dimensione internazionale degli scambi economici e l’interdipendenza economica potevano essere raggiunte solo rendendo la loro interruzione estremamente costosa, se non fatale. Questa logica avrebbe ridotto la tentazione della guerra, aumentando al tempo stesso l’attrattiva della pace come strumento per rafforzare ed espandere il commercio internazionale. In un mondo che, nel giro di un quarto di secolo, aveva conosciuto la tragedia di due guerre mondiali, l’idea di usare il mercato, la sua logica e il suo potere, per domare la dimensione “selvaggia” della sovranità statale sembrava, ed era, una strategia vincente.

La crisi economica del 1929, con le sue protratte, devastanti conseguenze, e le strategie impiegate per risolverla avevano chiaramente rivelato che i mercati – specialmente i mercati finanziari – non sono in grado di autoregolarsi. In altre parole, la crisi aveva smascherato l’illusione della «mano invisibile». Aveva mostrato chiaramente che gli sbilanciamenti del mercato possono avere effetti disastrosi che vanno molto al di là della sfera economica, invadendo ogni settore sociale: questa era stata la lezione americana negli anni Trenta. Un mercato in crisi può perfino travolgere le istituzioni della democrazia, come avevano dimostrato il crollo della Repubblica di Weimar e l’ascesa del nazismo in Germania.

Nel periodo interbellico era emerso nitidamente un assioma: solo la creazione di una classe media solida – attraverso il miglioramento delle condizioni e del benessere di una grande porzione della classe lavoratrice e la sua inclusione nel circuito del benessere, del consumo e dell’affluenza – poteva costituire quel “popolo”, quel “soggetto storico” di cui i liberali avevano bisogno per fondare la democrazia. Per questo motivo, l’attrattiva della cultura politica liberale divenne l’elemento centrale del sistema democratico stesso.

Ovviamente, l’incubazione della democrazia liberale era avvenuta prima della fine della Seconda guerra mondiale. Per esempio, l’espansione dei diritti di cittadinanza – vale a dire il suffragio universale maschile, quello femminile avrebbe tardato ancora decenni – era stata una conquista dei primi del Novecento. Ma l’inclusione politica non aveva alcun significato concreto in assenza di inclusione sociale. Il valore simbolico dell’inclusione politica era stato anzi sminuito dalla rampante diseguaglianza economica e sociale. Prevedibilmente, i “nuovi cittadini” divennero la facile preda dei demagoghi che capitalizzavano sulla preoccupante disconnessione tra le promesse e le premesse della democrazia.

È fuor di dubbio che la Guerra fredda, pur limitando le ambizioni universalistiche del modello liberale fondato sull’alleanza tra democrazia ed economia di mercato, apportava una pressione strutturale su di esso. L’attrattiva concorrenziale di capitalismo e socialismo diede forma all’interpretazione di come le democrazie liberali dovessero funzionare: tra i liberali si affermò il consenso che le forze del mercato dovessero essere riconciliate con il welfare state. In altri termini, la democrazia liberale in occidente non trionfò solo durante la Guerra fredda, ma grazie a essa. (…)

Riformare l’ordine internazionale

Come ha brillantemente argomentato John Ikenberry nel suo ultimo lavoro, Un mondo sicuro per la democrazia (Vita e pensiero, 2021), fu l’internazionalismo liberale a rispondere alla sfida della quale ci occupiamo in questo libro: armonizzare l’ordine internazionale con la realizzazione concreta di sovranità ed economia di mercato. Lo fece agendo non solo come «un insieme di idee sul funzionamento del mondo» ma anche «come un insieme di idee e progetti» per gestire il mondo delle democrazie liberali, nel tentativo di «organizzare e riformare l’ordine internazionale in direzioni che fortifichino e facilitino la sicurezza, la prosperità e il progresso della democrazia liberale».

Nei suoi momenti di massimo splendore, la costruzione di regole internazionali, istituzioni e partnership è stata pensata per potenziare – e non per indebolire – le facoltà dei governi nazionali.

Lungi dall’aderire a un approccio idealistico, occorre enfatizzare le relazioni tra gli interessi e i valori che caratterizzano le agende degli attori statali e non statali, relazioni istituite in modo deliberato, ma strutturalmente limitato. La preferenza per un ordine internazionale liberale non è fondata – per lo meno non sistematicamente – su considerazioni morali, ma sull’ipotesi che il liberalismo fornisca ancora i presupposti analitici più adeguati a spiegare la stabilità e la flessibilità senza precedenti che abbiamo conosciuto a livello nazionale e internazionale dalla fine della Seconda guerra mondiale.

È questa “stabilità liberale” ciò che ha portato all’istituzione di un’autentica leadership internazionale, limitando gli effetti della distribuzione irregolare di potere. Ma quegli stessi presupposti hanno anche aperto la strada – pur se non in modo ineluttabile – a forze che finiranno necessariamente per distruggere lo stesso ordine internazionale liberale.


Il testo in queste pagine è un estratto dal libro di Vittorio Emanuele Parsi: Titanic. Naufragio o cambio di rotta per l’ordine liberale, edito da il Mulino (2022).

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