La giuria di un tribunale di New York ha giudicato il noto rapper e produttore musicale colpevole di due capi d’accusa per «trasporto ai fini di prostituzione». Rischiava l’ergastolo, la sua condanna non supererà i 20 anni. Così il sistema giudiziario rischia di cancellare le battaglie del movimento
La giuria di un tribunale di New York ha giudicato Sean “Diddy” Combs colpevole di due capi d’accusa per «trasporto ai fini di prostituzione». Il noto rapper e produttore musicale è però stato assolto dalle accuse più gravi: due capi di imputazione per «traffico sessuale» (sex traffic, cioè l’uso della forza o l’inganno per obbligare una persona a compiere atti sessuali) e uno per «cospirazione per associazione a delinquere» (racketeering).
Combs, anche noto come Puff Daddy o P. Diddy, si era dichiarato non colpevole di tutte le accuse. Non è ancora nota la pena che dovrà scontare, anche se non supererà i vent’anni (la pena massima per «traffico sessuale» è di dieci anni, e i capi di imputazione sono due): sarà resa nota dal giudice nella prossima udienza. Se fosse stato ritenuto colpevole di tutte le accuse sarebbe andato incontro all’ergastolo.
Il processo
Il processo è durato circa sette settimane e ha coinvolto 34 testimoni, tra cui due ex fidanzate di Combs – la cantante, modella e attrice Casandra Ventura e una donna rimasta anonima, chiamata durante il processo con lo pseudonimo “Jane” – che hanno testimoniato di essere state abusate fisicamente e sessualmente, oltre che costrette ad avere rapporti sessuali con altre persone durante orge chiamate “freak off”.
“Festini” in cui Combs le avrebbe obbligate a partecipare ad attività sessuali prolungate, dietro minacce e anche sotto l’effetto di stupefacenti. La cantante Tanea Wallace in un’intervista a Sky ha descritto l’ambiente dei “freak off”, spiegando che «c’è gente che si strofina in un angolo, altri che scopano, altri che fanno chissà cosa, fumano, si drogano». E durante il processo Ventura ha detto che quegli incontri erano molto frequenti e avvenivano in suite d’hotel e camere da letto, dove Combs orchestrava tutto.
I verdetti
Ventura – che è stata fidanzata con Combs dal 2005 al 2017, con alcune pause nel mezzo – è stata la testimone principale nel processo. A novembre 2023 aveva denunciato l’ex compagno. Nella testimonianza rilasciata all’epoca aveva raccontato che l’aveva picchiata, violentata e obbligata ad avere rapporti sessuali con diversi sex worker negli anni precedenti. Dopo la sua denuncia, erano iniziate le indagini che hanno portato al processo. L’accusa di «traffico sessuale» nei confronti di Combs coinvolgeva, oltre a Ventura, anche la testimone rimasta anonima “Jane”.
«Sean controllava gran parte della mia vita, che si trattasse della mia carriera, del mio modo di vestire, di tutto. Non sentivo di avere molta voce in capitolo a quel tempo, essendo una persona davvero super giovane, ingenua e totalmente compiacente», ha raccontato Ventura durante il processo.
La cantante ha detto di non aver avuto la possibilità di opporsi ai “freak off” perché Combs la ricattava minacciando di diffondere alcuni suoi video. Come ha spiegato Douglas H. Wigdor, avvocato di Ventura, queste accuse non indicano che le violenze non ci siano state, ma che «una cosa è la violenza e una la tratta a scopo sessuale». Questo caso, ha aggiunto, ha dimostrato «che c’è bisogno di un cambiamento, continueremo a lottare per i sopravvissuti» agli abusi.
Per quanto riguarda invece l’accusa di associazione a delinquere, si basava sull’ipotesi che il rapper avesse coinvolto alcune persone del suo entourage in attività criminali come spaccio di droga, lavoro forzato o corruzione. Ma anche in questo caso, come nei due precedenti, Combs è stato giudicato non colpevole.
I due capi di imputazione che invece sono stati riconosciuti dalla giuria riguardano il «trasporto ai fini di prostituzione». In pratica, Combs è stato giudicato colpevole per aver agevolato gli spostamenti dei sex worker che prendevano parte ai suoi “freak off”.
E il Me Too?
Il rapper era stato arrestato a settembre 2024 dopo che, dall’anno precedente, aveva ricevuto 78 denunce per presunti abusi sessuali, di cui alcune poi ritirate, da uomini e donne, alcuni anche minorenni all’epoca dei fatti.
Dopo che si era fatta avanti Casandra Ventura, le denunce contro Combs erano cresciute esponenzialmente, tanto che si era parlato della possibilità di un nuovo Me Too, come quando, dopo le prime accuse di molestie sessuali nei confronti del fondatore della Miramax Films Harvey Weinstein, le denunce si erano moltiplicate.
Ed è proprio il Me Too ad aver insegnato che più voci, insieme, possono far cadere anche i potenti. Eppure, l’eredità di quel movimento, in tribunale, ogni tanto vacilla. Sebbene Combs fosse a processo per diversi reati e non tutti fossero strettamente legati alla violenza sessuale, le assoluzioni del produttore sono solo le ultime di un elenco che non è poi così breve, e che ricorda la difficoltà a denunciare delle donne, la paura di non essere credute, di essere sminuite, colpevolizzate.
A questo si somma la fatica che comporta decidere di esporsi, con tutte le sue conseguenze. Basti pensare al processo del 2018 che ha visto condannato per violenze sessuali aggravate l’attore statunitense Bill Cosby. La difesa aveva messo in discussione le accuse e la credibilità delle vittime, definendo una di loro una «bugiarda patologica». Lo stesso è avvenuto nei processi contro Harvey Weinstein, e in molti altri casi. Quello contro Sean “Diddy” Combs potrebbe contribuire a creare, ancora una volta, pretesti capaci di affossare le vittime.
«Questo è un momento decisivo per il nostro sistema giudiziario, uno che rischia di annullare il sacrificio dei coraggiosi sopravvissuti che hanno avuto il coraggio di raccontare le loro storie in questo processo, così come di tutti coloro che sono stati abusati da Diddy e non hanno potuto farlo», ha detto dopo le sentenze di ieri UltraViolet, un’organizzazione che si batte per i diritti delle donne.
«Il verdetto non è solo una macchia su un sistema di giustizia penale che per decenni non è riuscito a ritenere responsabili gli abusatori come Diddy, è anche un atto d’accusa contro una cultura in cui il non credere alle donne e alle vittime di violenza sessuale rimane endemico».
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