Lo Uber cinese ieri si è visto rimuovere la sua applicazione da tutti gli app store e bloccare l’iscrizione di nuovi utenti. Con questa mossa senza precedenti l’Amministrazione del cyberspazio della Cina (Cac) ha accompagnato l’avvio, nel fine settimana, dell’inchiesta sull’utilizzo dei dati dei passeggeri da parte di Didi. L’istruttoria potrebbe durare un paio di mesi, ma la Cac ha anticipato con un comunicato che «denunce verificate segnalano che Didi, nel raccogliere e utilizzare informazioni personali, ha violato in maniera grave leggi e regolamenti». Didi ha subito assicurato che collaborerà pienamente con la Cac, ma è chiaro che per la compagnia potrebbe arrivare una sanzione significativa come quella (2,8 miliardi di dollari) che nella primavera scorsa ha colpito il gigante del commercio elettronico Alibaba.

Valutata 67,5 miliardi di dollari, Didi (600 milioni di utenti e 13 mila impiegati) aveva debuttato mercoledì scorso con un’offerta iniziale d’acquisto (Ipo) al New York Stock Exchange.

La decisione di mettere sotto la lente dell’Amministrazione del cyberspazio della Cina una compagnia che nel 2020 ha registrato 21 miliardi di dollari di fatturato (e nel cui azionariato sono presenti la statunitense Uber, col 12,8 per cento e il fondo nipponico SoftBank’s Vision, col 21,5 per cento) è stata condivisa dalla leadership del Partito comunista. Infatti la Cac - l’autorità di controllo inaugurata nel 2014, tessera importante del mosaico di riforme di Xi Jinping che stabilisce le linee guida delle politiche di sviluppo Internet, della censura, e le direttive da impartire ai giganti nazionali del web - risponde alla Commissione centrale per gli affari del cyber-spazio, presieduta dal segretario generale del Pcc.

Soprattutto, per la prima volta l’Amministrazione del cyberspazio della Cina è scesa in campo contro uno dei giganti hi-tech nazionali, adducendo (circostanza anche questa inedita) rischi per la «sicurezza nazionale» a sostegno del suo intervento.

L’alternativa al taxi

Didi in Cina è su tutti gli smartphone: le sue vetture sono ritenute più pulite, puntuali ed economiche dei taxi tradizionali e vengono guidate da 30 milioni di autisti, molti dei quali giovani che arrotondano lo stipendio facendo i driver part-time. Didi raccoglie numeri di telefono, informazioni sui pagamenti, posizionamento in tempo reale tanto degli autisti quanto degli utenti, e così via.

Negli ultimi anni la classe media cinese si è mostrata sempre più preoccupata per l’utilizzo dei suoi dati da parte delle compagnie di internet. Così pure il governo centrale, che nel giugno 2020 ha varato un regolamento sulla cybersecurity che attribuisce alle autorità ampi poteri d’indagine nei confronti delle aziende che li raccolgono.

Ieri mattina, la Cac ha aggiunto di aver avviato accertamenti analoghi nei confronti delle app per richiesta di camion Yunmanman e Huochebang e di quella di recruiting Boss Zhipin. Proprio come Didi, anche queste aziende si erano quotate negli Stati uniti, il mese scorso. La Cac ha fatto sapere che le istruttorie sono state iniziate per «prevenire rischi sulla sicurezza dei dati nazionali e proteggere la sicurezza nazionale».

Si tratta dunque di inchieste diverse da quelle che hanno colpito negli ultimi mesi il gigante del commercio elettronico Alibaba e il suo fondatore, Jack Ma, o quello del delivery Meituan, finite sotto la lente dell’anti-trust per «abuso di posizione dominante».

Nell’aprile scorso, l’antitrust aveva convocato 34 tra le maggiori piattaforme che operano nel web cinese, ordinando loro di smettere di abusare della loro posizione dominante di mercato, pena una «punizione severa». A maggio sempre l’autorità antitrust aveva ordinato a Didi e a un gruppo di altre compagnie di trasporto on-demand di smettere di applicare tariffe arbitrarie e maltrattare gli autisti. Didi aveva promesso che avrebbe migliorare il trattamento dei suoi driver, che ricevono il 79 per cento della tariffa corrisposta dai passeggeri.

Tra antitrust e controllo politico

Queste nuove indagini della Cac sulla base della difesa della «sicurezza nazionale» aprono la possibilità a interventi molto più discrezionali delle autorità nei confronti di imprese private, nonché alla verifica (e alla “condivisione”) della colossale mole di dati in loro possesso, che va dagli spostamenti fisici, alle transazioni elettroniche alle comunicazioni, e così via.

E infatti gli osservatori cinesi sono convinti che con l’indagine contro Didi sia stata inaugurata una nuova era nel rapporto tra Pechino e le compagnie hi-tech, che per anni il Partito aveva protetto e fatto prosperare, anche chiudendo le frontiere alla concorrenza straniera e facendo nascere dei monopoli attorno ai quali si sono sviluppati vivaci ecosistemi di migliaia di startup innovative.

La leadership del Pcc ha deciso che è arrivato il momento di chiudere l’era del laissez faire che ha permesso a queste aziende di arricchirsi, e di inaugurare quella del controllo di colossi che per il Partito rischiavano di diventare ingestibili, con la creazione di “centri di potere” alternativi attorno a personaggi carismatici come Jack Ma.

Un’inversione di rotta della quale ormai tutti sono consapevoli, tanto che Didi nelle 60 pagine di prospetto consegnate agli investitori in vista dell’Ipo, aveva segnalato «rischi da parte delle autorità di controllo che potrebbero avere un impatto avverso sul business».

La leadership cinese inoltre non vuole permettere che delle compagnie private gestiscano – come hanno fatto finora – in maniera indipendente un’enorme mole di dati, considerati importanti per la sicurezza nazionale.

Secondo Wang Sixin sono state proprio le Ipo negli Usa a far scattare gli ultimi controlli governativi. «Compagnie come Didi hanno un’enorme mole di dati fondamentali su strade, trasporti e abitudini dei consumatori – ha spiegato a South China Monrning Post il docente di diritto della Communication University of China. Un genere di dati che è strettamente legato alla sicurezza nazionale».

Non a caso il vice presidente di Didi, Li Min, nel fine settimana è stato costretto a smentire le voci che circolano su Weibo (il Twitter locale) secondo le quali la compagnia avrebbe ceduto i dati degli utenti cinesi alle autorità statunitensi: «I dati degli utenti cinesi sono conservati in server in Cina». Boatos alimentati dal nervosismo che si respira nelle stanze del potere a Pechino per il prolungarsi dello scontro commerciale-tecnologico con Washington e dal nazionalismo che online scorre impetuoso.

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