All’alba del 17 dicembre la città di Sidi Bouzid è avvolta da una fitta nebbia. Le strade che portano a questa piccola città dell’entroterra tunisino sono accompagnate da una distesa di fichi d’india avvolte da sacchi di plastica, ulivi e insediamenti informali abitati dagli agricoltori della zona. In città i caffè sono aperti come tutti gli altri giorni, pronti ad accogliere i clienti locali fino alla chiusura delle 18, come impone il protocollo nazionale anti Covid. Solo che il 17 dicembre non è un giorno come un altro da queste parti.

La via principale è sorvegliata da un ingente numero di forze dell’ordine, impegnate a controllare l’accesso alla piazza dove dieci anni fa si diede fuoco Mohamed Bouazizi. Quel gesto disperato del giovane venditore ambulante diede vita a una serie di proteste che portarono quasi un mese dopo alla caduta del regime di Zine El Abidine Ben Ali. Dalla Tunisia i venti rivoluzionari toccarono paesi vicini e lontani, dando vita così alle cosiddette primavere arabe, ognuno con le sue rivendicazioni politiche, economiche e sociali.

La disillusione che avvolge Sidi Bouzid oggi è rappresentata dalle poche centinaia di persone, non di più, presenti nella piazza principale. Sopra il palco, allestito per la celebrazione, giganteggia un’opera artistica che raffigura il volto del giovane venditore ambulante. Due striscioni recitano le scritte: “martire” e “17 dicembre 2010: la rivoluzione della libertà e della dignità”.

Dietro le transenne che dividono il palco dalla folla, una decina di bambini sgomitano per prendere le bandierine rosse e bianche della Tunisia distribuite da Ouafa Abbasi, una delle organizzatrici dell’evento. «Sono stata tra le prime donne che hanno partecipato alle manifestazioni del 17 dicembre 2010 – racconta Abbasi – ero presente quando Bouazizi è stato fermato dalla polizia municipale e ho visto tutta la scena fino alla fine. Poco dopo sono andata a casa a pranzo e mi hanno chiamato dicendo che Bouazizi si era appena dato fuoco e lo avevano portato all’ospedale». Ricorda benissimo quei giorni, hanno lasciato cicatrici anche sul suo corpo: «Durante le manifestazioni delle settimane successive sono stata picchiata dai poliziotti, ho passato molti giorni in ospedale». Ora c’è un processo in corso ma dopo dieci anni Ouafa è quasi sicura che non riuscirà a ottenere giustizia per l’accaduto. Le sue parole sono accompagnate dalla frustrazione: «Qui non è cambiato nulla. Abbiamo chiesto un ospedale universitario e hanno costruito una caserma di militari, abbiamo chiesto dei progetti di sviluppo e hanno costruito una caserma di poliziotti antisommossa. Per Sidi Bouzid non ci sono aspetti positivi, c’è una libertà di espressione che non porta a nulla».

I diritti civili conquistati non bastano a sopperire la grave mancanza sul piano sociale ed economico che vivono le regioni. «La situazione delle donne è assolutamente negativa – aggiunge prima di tornare ai suoi impegni – coloro che lavorano nelle campagne e nelle industrie sono completamente dimenticate».

La mattina della celebrazione l’aria è tesa. Due cantanti salgono sul palco tra i fischi di alcuni manifestanti che iniziano a gridare «dégage», andate via, un urlo che nel 2010 era rivolto verso Ben Ali. Alcune donne esprimono la loro rabbia tentando di sfondare la barriera composta da transenne e poliziotti. L’esibizione dei due cantanti sembra subito fuori luogo. Per chi è presente in piazza, il 17 dicembre è un giorno di lotta e di rivendicazioni economiche e sociali.

«Non celebro la rivoluzione»

C’è chi, invece, non ha più le forze di continuare a essere ignorato. «Non celebro la rivoluzione, ho un master all’università e non ci sono posti di lavoro – racconta Walid, un ragazzo di 26 anni seduto su un muretto davanti alla piazza principale – ti chiedono minimo due anni di esperienza, dove posso ottenerla se non mi danno nemmeno un’opportunità? Abbiamo deviato dal percorso della rivoluzione, non ho alcun tipo di fiducia che la situazione possa migliorare, possiamo solo emigrare in un paese europeo e non rispettare la scadenza del visto», dice mentre si accende l’ennesima sigaretta della giornata. I giovani sognano l’Europa. Solo da gennaio a luglio più di 13mila tunisini sono partiti attraverso il Mediterraneo.

A Sidi Bouzid la mancanza di investimenti è più sentita che in altre città. «Abbiamo un tasso di disoccupazione che si assesta sul 23-24 per cento, mentre la media nazionale è al 16 per cento», dice Lazaar Al Gammoudi, segretario regionale dell’Ugtt, il sindacato nazionale più importante del paese. «Tuttavia non possiamo fare una comparazione tra Sidi Bouzid e città della costa come Sousse, perché queste hanno infrastrutture e uno sviluppo diffuso, qui l’economia è prevalentemente agricola».

«A Sidi Bouzid ci sono 2mila laureati disoccupati, l’agricoltura è l’unica speranza, per chi studia non c’è lavoro», spiega Mahjoub Nsibi, uno dei primi militanti a essersi mobilitato il 17 dicembre 2010. Le piccole industrie sono state capaci di assorbire soltanto una piccola percentuale dei lavoratori sostituiti dall’avvento della tecnologia nelle campagne. Per i laureati, invece, non c’è alcun tipo di spazio.

Mahjoub è un uomo robusto, attorno al collo indossa una sciarpa bianca che richiama la Palestina: «Che Guevara è stato l’unico rivoluzionario», dice sorridendo. «Nel 2010 i tunisini erano uniti, un solo popolo e un solo nemico: il regime di Ben Ali. Adesso sono divisi, c’è una spinta alla frammentazione e i partiti approfittano di questo».

Andando indietro nel tempo, Mahjoub racconta che il movimento di protesta era nato già nel 2008. Il 2010 è stato l’anno cruciale: «Prima del 17 dicembre ci sono stati sei casi di suicidio qui a Sidi Bouzid. Le proteste scoppiate nei quartieri popolari sono quelle che hanno permesso la riuscita delle manifestazioni, che in meno di una settimana si sono ampliate ad altri governatorati. La polizia non poteva reggere quei ritmi di protesta», ricorda con orgoglio i giorni di lotta del passato. «Il 17 dicembre simboleggia la creazione di un nuovo mondo, è la data del passaggio a quella che noi chiamiamo seconda repubblica, ma i tunisini si aspettavano dalla rivoluzione la realizzazione dei loro diritti ma questo non è successo – afferma – per questo io oggi lo chiamo il decimo anniversario della pazienza».

Oggi Mahjoub è uno dei promotori di una nuova iniziativa politica nata a Sidi Bouzid, proprio nel giorno dell’anniversario. Il progetto è stato presentato in un bar a un centinaio di metri dalla piazza centrale, lontano dal suono delle canzoni e dal rumore della folla. Per loro oggi non è un giorno di un nuovo inizio. Tra i punti principali del movimento c’è la lotta alla povertà e la fuoriuscita dalla marginalizzazione. «I finanziamenti delle municipalità sono scarsissimi e non bastano per tutti i progetti che bisognerebbe fare», aggiunge Mahjoub nella presentazione del suo nuovo piano politico.

Disuguaglianze

Il divario tra le regioni interne della Tunisia e le città della costa è da sempre al centro del dibattito politico nazionale. Aziende e fabbriche sono localizzate verso il mare, più vicine ai mercati del Mediterraneo. Qui il turismo di massa ha favorito poche famiglie. A città interne come Gafsa, Tataouine e Kairouan resta solo quello che rimane dall’estrazione dei minerali e degli idrocarburi: poco o nulla.

«La situazione nell’entroterra è più grave che in passato – spiega Ala Talbi, direttore esecutivo del Forum Tunisien pour les droits économiques et sociaux – dal 1° gennaio al 30 novembre di quest’anno si sono formati più di 7mila movimenti sociali. Sono aumentati soprattutto nel sud, e non ci sono solo movimenti informali, ma anche di settore: medici, insegnanti, infermieri, ingegneri, giornalisti». Il Ftdes prepara ogni anno, con l’ausilio di 30 ricercatori, dei report con delle raccomandazioni sul piano politico e sulla legge finanziaria che poi presentano alle istituzioni. Non sempre però riescono a incontrare i membri del governo e della pubblica amministrazione.

«È tempo di dire che lo stato e i politici hanno fallito sul piano sociale ed economico in Tunisia – continua Talbi – la situazione è allarmante, soprattutto con la crisi economica che stiamo vivendo». Il punto di rottura tra il popolo tunisino e i suoi rappresentanti è vicino e il 2021 rischia di diventare un anno di forti nobilitazioni in tutto il paese. «La transizione ha fatto sì che il debito pubblico sia raddoppiato nel corso degli ultimi dieci anni – spiega Stedano Torelli, ricercatore dell’Ispi – il dinaro tunisino si è fortemente svalutato e ha perso quasi un terzo del suo valore negli ultimi 4 anni. Permangono enormi disparità regionali tra est e ovest e sono tutti fattori che fanno sì che la Tunisia non riesca davvero ad avviare un processo di transizione completo».

Ibrahim Slimi lavora nella radio regionale Karama, dignità: «Cerchiamo di creare e sviluppare una vita mediatica a Sidi Bouzid. Rispetto a quando eravamo sotto il regime di Ben Ali la situazione è decisamente migliorata». Ma c’è ancora una lunga strada da percorrere, che questa pandemia ha reso ancora più in salita. «Sidi Bouzid ha bisogno di sviluppo, lavoro, infrastrutture di base per la sanità e l’istruzione. Il Covid-19 ha palesato i problemi legati agli ospedali del paese che sono in una vera catastrofe», sottolinea Slimi. La situazione è quasi uguale per tutte le città interne: «Non c’è nessuna differenza, non c’è un modello di sviluppo, quello applicato da Bourghiba non esisteva, ogni volta che si presenta un nuovo governo non cambia nulla», conclude il giornalista. Secondo lui gennaio sarà un mese molto caldo e animato dalle proteste di piazza: «Adesso la vera differenza è tra nuove e vecchie generazioni, tra forze progressiste e reazionarie – spiega Torelli – non è ancora scongiurato un ritorno a forme di governo autoritarie. Questo è il più grande pericolo per la Tunisia di oggi».

Nel primo pomeriggio la piazza è già quasi vuota. I bambini giocano tra i poliziotti in borghese. Di giovani se ne vedono pochissimi e nell’aria è percepibile un senso di delusione. «Perché dopo dieci anni siete ancora qua? – si chiede Ouafa Abbasi – sono molto triste, le primavere arabe non esistono». La mattina del 17 dicembre era previsto l’arrivo del presidente della Repubblica, Kaïs Saïed, poi annullato all’ultimo motivo per altre priorità, cosa che riassume in maniera molto chiara e definita il senso di abbandono che provano oggi i cittadini di Sidi Bouzid. Si conclude così, dieci anni dopo, l’anniversario della cosiddetta Rivoluzione dei gelsomini.

 

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