Quello che doveva essere il grande piano alimentare del Regno Unito, è un altro fallimento di Boris Johnson. Nel luglio del 2020, in piena pandemia da Covid-19, il primo ministro ammetteva di essere «troppo grasso»: ogni chilo in eccesso pesava sulla sua salute e la paura di contrarre malattie, o di aggravarle, lo avevano portato a intraprendere uno stile di vita sano, mangiando meglio e bruciando calorie nelle corse mattutine con Dilyn, il suo cane Jack Russel. La guerra al cibo spazzatura era stata dichiarata per il bene dei britannici, tra i più in carne in Europa, con il 64 per cento degli adulti e il 40 per cento dei bambini in sovrappeso o obesi.

A loro prometteva un piano nazionale per la sicurezza alimentare: lotta al junk food, tasse sullo zucchero e maggior sostegno alle famiglie più povere. Due anni dopo, nel documento presentato a giugno dal governo, prima delle dimissioni forzate di Johnson, non c’è traccia di tutto ciò. Piuttosto, è stato proposto solo un aumento della produzione interna per mitigare gli effetti della guerra in Ucraina, quali inflazione e interruzione delle forniture.

Un piano insufficiente 

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Da una fattoria della Cornovaglia, in piena campagna elettorale per le suppletive (perse dai tories), il primo ministro ha presentato la strategia per «sostenere gli agricoltori e un sistema alimentare resiliente, più sano e sostenibile, che sia alla portata di tutti».

Per riuscirci, il governo ha stanziato 270 milioni di sterline da investire nel programma di innovazione agricola per incrementare produttività e redditività, in aggiunta ai 120 milioni di sterline già impegnati nella ricerca.

Nel giro di un anno agli agricoltori verrà presentato un piano d’aiuto su come coltivare di più e nel rispetto dei vincoli ambientali. Nel frattempo, l’obiettivo è indirizzare il 50 per cento della spesa pubblica alimentare per prodotti locali e certificati.

Tutto ciò dovrebbe accrescere la produzione in alcuni settori e l’occupazione. Ma oltre alla precarietà dei contratti (per quest’anno sono previsti 40mila visti per lavoratori stagionali) a preoccupare è l’inconsistenza del piano di fronte a quelle che erano le vere piaghe alimentari del Regno Unito dove, pre pandemia, si contavano 90mila decessi all’anno per cattiva alimentazione e il National Health Service (NHS) spendeva sei miliardi di sterline.

A criticarlo è stato persino Henry Dimbleby, co-fondatore della catena di fast food Leon Restaurants e dal 2018 membro del consiglio non esecutivo principale del Dipartimento per l’ambiente, l’alimentazione e gli affari rurali (Defra).

«Non è altro che una dichiarazione di intenti vaghi, non una proposta concreta per affrontare i grandi problemi del nostro Paese. Definirla una strategia alimentare è al limite dell’assurdo», ha detto.

La tassa sullo zucchero

E pensare che Dimbleby aveva speso tempo e fatica per scrivere le trecento pagine della National Food Strategy commissionatogli dall’ex premier Theresa May per evidenziare le priorità da affrontare.

Invece, nel documento del governo, dei suoi suggerimenti c’era poco o niente. I pasti scolastici gratuiti per 1,5 milioni di studenti inglesi tra i sette e i 16 anni, necessari a causa del crescente divario tra ricchi e poveri, saranno solamente «tenuti sotto controllo».

A rimanere inascoltata anche l’altra proposta, quella di ridurre gli effetti del cambiamento climatico stanziando 2,4 miliardi di stelline all’anno per la salvaguardia delle aree agricole: nel documento sottoposto ai parlamentari, sulla tutela ambientale c’era quasi zero.

Seppur incentrata solo sull’Inghilterra, la radiografia di Dimbleby doveva servire a comprendere lo stato di salute del sistema alimentare britannico. Il suo compito era quello di mostrare gli aspetti più negativi e sottoporli alla politica affinché agisse.

Nelle sue riflessioni, Dimbleby critica il ruolo (fin troppo) centrale delle grandi catene che ingannano i consumatori con prodotti carichi di zuccheri spacciandoli per cibo sano. Fosse stato per lui, Londra avrebbe dovuto imporre una tassa su zucchero e sale, rispettivamente di tre e sei sterline ogni kg, che avrebbe generato tra i 2,9 e i 3,4 miliardi di sterline all’anno.

Soldi da riutilizzare per ampliare il sistema di buoni pasto per frutta, verdura e latte previsto dall’Healty Start, un programma d’aiuto destinato alle donne incinta da più di dieci settimane o con un bambino al di sotto dei quattro anni. La strada intrapresa dal governo è stata tutt’altra e, per di più, Johnson dovrà porre rimedio al caos generato dalla digitalizzazione del servizio, con decine di migliaia di persone che non sono riuscite a registrarsi al programma.

Parole al vento

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Uno degli obiettivi della strategia nazionale era quello di rendere la Gran Bretagna del post Brexit leader assoluta in materia di alimentazione, innalzandone gli standard qualitativi. Lo aveva raccomandato lo stesso Dimbleby: «Gli accordi che concludiamo ora daranno forma al sistema alimentare del futuro, influenzando tutto, dai mezzi di sussistenza dei nostri agricoltori al benessere degli animali e ai cambiamenti climatici». Parole al vento.

La misura che avrebbe garantito l’importazione di cibi con elevati standard ambientali è stata cancellata mentre, alla richiesta di ridurre il consumo di carne e latticini del 30 per cento per il benessere agricolo, il governo ha risposto incrementando la produzione ittica, che di sostenibile ha ben poco, e favorendo «l’uso di selvaggina di provenienza responsabile».

Gli entusiasti per la strategia, dunque, si contano sulle dita di una mano. Tra questi, la National Farmers Union. L’organizzazione di beneficenza, Soil Association, sebbene delusa dalla mancata opportunità del governo, si dice pronta a collaborare per migliorarla.

Critici sono stati anche l’ente benefico The Wildlife Trusts, l’organizzazione dei consumatori Wich, Il Wwf e Greenpeace. Tutti loro si aspettavano uno sforzo in più da parte di Boris Johnson per contrastare l’obesità, quando invece il premier si è fermato solo a un consiglio spassionato: «Il modo migliore per dimagrire, credetemi, è mangiare di meno».

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