Dietro i migranti, le madri: le voci di chi resta nel limbo

Tra sfoggio marziale, dispiegamento di forze e una Boulevard de l’Indépendance della capitale Bamako vestita a festa, il 22 settembre il Mali ha festeggiato il 65° anniversario dell’indipendenza dalla Francia. La giunta militare di Assimi Goïta, insediatasi al potere nel maggio 2021 a seguito di un secondo colpo di stato in meno di un anno, ha puntato molto su questa storica occasione che tra sfilate militari, discorsi e spettacoli è andata avanti per oltre sei ore. Il Piano Mattei serve a Eni & co, l’Africa può aspettare e sperare Il miraggio della sicurezza In un momento delicato per molti motivi, Goita ha voluto esibire le ultime acquisizioni dell’esercito maliano, dare sfoggio di potenza e rassicurare così la popolazione sulla condotta della lotta al jihadismo che sta seriamente minacciando il paese da oltre un decennio. Il tutto condito da una retorica anticoloniale, marcatamente antifrancese, che fa da collante tra i maliani e mantiene alto il consenso verso la giunta. Al presidente i concittadini concedono i meriti di un ritornato orgoglio nazionale e di aver avocato a sé la lotta al jihadismo oltre alla volontà di pulizia radicale della classe politica giudicata quasi all’unanimità corrotta e incapace. Ma la sicurezza è un miraggio: è di questi giorni la notizia di un significativo blocco dell’afflusso di carburanti su tutti gli assi stradali verso il Mali operato proprio dai gruppi terroristici, una situazione molto pesante che sta creando un ulteriore blocco dell’economia e che fa salire ancora di più la tensione. La Farnesina, infatti, ha invitato gli italiani a lasciare il paese. Le infrastrutture, inoltre, restano un problema anche nella capitale Bamako, con strade principali mediamente percorribili ma quelle collaterali che rappresentano sfide a volte insuperabili per centinaia di migliaia di automobilisti e per masse enormi di scooteristi. C’è poi la grave questione della scolarizzazione. In molte aree le scuole sono chiuse a causa della presenza stabile di jihadisti, in altre, anche a causa delle calamità naturali di cui il Mali è vittima ricorrente, centinaia di miglia di bambini restano lontani dai banchi. Nella stessa Bamako si tende a smettere presto di andare a scuola mentre un numero significativo di bambini viene iscritto alle madrase, le scuole coraniche, che forniscono un’istruzione esclusivamente religiosa con pochi cenni a materie culturali e scientifiche, sebbene siano gestite dal Ministero dell’educazione. Paure e speranze, la nuova alleanza degli stati del Sahel I cari che rimangono È per tutti questi fattori che tanti, ancora, tentano la via della fuga verso l’Europa, accettando rischi, violenze e possibile morte, pur di garantire un futuro migliore a sé e alle proprie famiglie. A casa, restano in gran parte donne che vivono il periodo del viaggio dei propri cari con l’angoscia paralizzante della mancanza di notizie. Restano mamme che attendono per mesi, anni, a volte per sempre, uno squillo di telefono da parte del figlio «Mi aveva promesso che al suo ritorno avrebbe comprato un terreno, ci avrebbe costruito una casa e ci saremmo trasferiti lì – dice Kéménani con il sorriso improvvisamente ritornato tra le labbra e gli occhi ravvivati nel ricordo dell’ultimo colloquio avuto con il figlio – E invece è stato un viaggio senza ritorno. Lo avevo implorato, “Non partire, il viaggio verso l’Europa non perdona, abbiamo già perso in mare tuo padre (il marito era morto due anni prima nel tentativo di raggiungere la Spagna sull’Atlantico, ndr), non posso pensare di perdere anche te”. Ma lui non voleva saperne, sentiva su di sé la responsabilità della famiglia e ha deciso di andare». Così una notte, senza avvisare la mamma perché sapeva della contrarietà e non aveva il coraggio di affrontarla e vederla piangere, Koniba è partito. Dopo tutto il tratto in parte desertico del Mali a nord, è passato in Algeria e lì, dopo mesi, è riuscito a sentire la madre, a mandarle soldi e a prometterle il terreno su cui costruire la casa. Poi, più nulla. «L’ultima volta che ci siamo sentiti era in Algeria, non ero certo tranquilla, ma il fatto che ci sentissimo mi rassicurava. Poi mesi e mesi ad attendere, ogni giorno che passava era peggiore del precedente…». Alla fine di un periodo angoscioso, Kéménani ha ricevuto una telefonata da uno dei ragazzi che erano sul barcone col figlio: «Non ce l’ha fatta». La donna è precipitata in uno stato di salute precario, la pressione altissima, la tristezza nell’animo. Non può permettersi, però, di lasciarsi andare: ora tutta la numerosa famiglia è sulle sue spalle. Nel dibattito sulle migrazioni che contraddistingue il nostro paese e l’Europa, così drogato e strumentalizzato anche perché lontano da chi lo vive, è raro che emergano le voci di chi resta, le sensazioni, le sofferenze, i problemi e le richieste dei parenti di chi migra. Si fa difficoltà a pensare che dietro a un ragazzo che si avventura nel viaggio infernale verso un’Europa sprangata fino all’inverosimile e inaccessibile a chi proviene dal sud globale, ci siano affetti, amori, passioni, separazioni laceranti. Ci siano mamme che vivono sospese attaccate a quel cellulare che non squilla mai e che continuano a sperare che il proprio ragazzo ce l’abbia fatta. Gli effetti della caduta di Assad, l’Africa non si fida più di Mosca La voce delle mamme Per raccogliere le loro voci e inserirle quale contributo fondamentale nel dibattitto, è stato ideato ‘Mums, narrare il fenomeno migratorio attraverso la voce delle mamme dei migranti’, un progetto giornalistico concepito da chi vi scrive, finanziato dal Coordinamento nazionale comunità minori (Cncm) e sostenuto da un crowdfunding, composto da tre missioni in altrettanti paesi africani. L’obiettivo, oltre alla redazione di articoli, è quello di produrre una serie di cortometraggi – uno per ogni paese – e di realizzare un documentario finale. La prima tappa si è svolta in Gambia un anno fa. In quell’occasione sono state intervistate quattro mamme di altrettanti ragazzi sopravvissuti al viaggio. La tappa di Bamako, invece, svoltasi lo scorso settembre, ha raccolto le voci di cinque mamme i cui figli sono andati a ingrossare il numero di persone morte mentre cercavano di raggiungere l’Europa: solo in mare 31mila circa dal 2014 a oggi, a cui vanno aggiunti quelli deceduti prima di raggiungere le coste. L’ultimo ricatto Usa: tagliare gli aiuti umanitari dell’Usaid per estorcere terre rare e minerali «Dopo la morte del padre – racconta Fatoumata, una donna sulla cinquantina madre di quattro – mio figlio ha iniziato a lavorare come muratore per aiutare a sfamarci. Si chiamava Badra, aveva 25 anni. Un giorno viene da me, mi dice: “Mamma così non andiamo avanti, devo andare in Europa”, io avevo sentito che le persone annegavano in mare o morivano nel deserto e ho iniziato a implorarlo “Ti prego, non andare, siamo poveri ma tutti insieme possiamo farcela”, ma lui insisteva, diceva che non c'era nessuno che si sarebbe preso cura di noi. Per me è iniziato un periodo terribile, prima sono rimasta senza sue notizie per molto tempo e avevo smesso di dormire. Poi, finalmente, arrivò una sua telefonata ma la gioia di risentire la sua voce fu subito sopraffatta: mi disse che era in Mauritania e che si stava preparando per attraversare il mare». Fatoumata si interrompe qui, la narrazione arriva a un punto troppo doloroso, fatica a riprendere. Un mese e 15 giorni dopo le hanno telefonato per dirle che il ragazzo era «rimasto in mare».