Il benvenuto sul suolo ucraino è il sibilo della sirena antiaerea. Sono le 2.30 della mattina del 9 giugno, e il treno viene fermato nella stazione ferroviaria di Leopoli. Il suono ricorda echi fordisti, rispolvera dal fondo della memoria il cambio del turno nelle fabbriche del secolo scorso. Una voce gracchia dall’altoparlante una frase incomprensibile. Gli uomini della security stipati nel compartimento a fianco ti gelano con uno sguardo, dal significato più esplicito di ogni parola. Restare fermi, e restare calmi. Benvenuti in Ucraina. Inizia così la missione della delegazione parlamentare italiana invitata a Kiev dal presidente della Rada – il parlamento ucraino – per perorare i tre elementi chiave del paese del grano aggredito: il sostegno politico, l’aiuto militare, l’urgenza di garantire entrambe le cose insieme.

Fanno parte della delegazione italiana, oltre a chi scrive, altri tre deputati del Partito democratico (Lia Quartapelle, Andrea Romano, Fausto Raciti) e uno di Italia Viva (Massimo Ungaro). 

Ci muoviamo nell’ambito della rete interparlamentare paneuropea United for Ukraine, che rappresenta più di 300 parlamentari europei di tutte le estrazioni politiche (a dire il vero, con un basso tasso specifico di sovranisti e una gamma piuttosto estesa delle “famiglie” europee modello “Ursula”).

Il viaggio

Dopo un volo per Varsavia, un van ci ha portati nella cittadina polacca di confine dal nome impronunciabile resa ormai famosa a livello globale dal suo sindaco e dal segretario della Lega. Sul selciato davanti alla stazione, che ricorda atmosfere asburgiche lontane, sembra ci sia ancora l’impronta del caso politico dell’anno. Per l’Italia, ovviamente.

Qui la realtà è fatta di tazze di borsch al buffet, di ucraini che si mettono in fila (ormai praticamente svuotata rispetto ai primi giorni) davanti al corridoio loro dedicato per le procedure di accoglienza migratoria, e di treni che partono per l’Ucraina.

Lenti, caldi, rumorosi. Non è solo distante l’alta velocità con la quale ci siamo assuefatti alla comodità ferroviaria. Si perdono nella notte ucraina anche i ricordi del “corridoio 5”, della Trans European Network Lisbona-Kiev, si perde anche il roaming e naturalmente WhatsApp.

Arrivo a Kiev

Foto Ap

Welcome to Ukraine. Al mattino cielo azzurro, immensa distesa verde e centinaia di chilometri che tagliano il granaio del mondo, dove a dispetto di ciò che accade seminano ancora, solcano il terreno con i trattori, si affacciano su stazioni sperdute nel nulla alla ricerca di un collegamento con il mondo. Kiev ci accoglie dentro una atmosfera continentale appiccicosa e una organizzazione militare rodata. 

Appena messo piede nella capitale, parte un tourbillon di incontri con tutti i livelli istituzionali. Nella sede del ministero degli Esteri, riempita di sacchi di sabbia e di guardie del corpo, Emine Dzhaparova – la vice di Kuleba – mette subito in chiaro le aspettative di queste latitudini: il 91 per cento degli Ucraini si sentono pienamente europei dopo l’aggressione putiniana, e vogliono entrare nell’Unione europea.

Non sbatteteci la porta in faccia, alla fine sarebbe pericoloso anche per voi perché se l’orso russo si impadronisce di una terra che produce terre rare e cereali per tutto il mondo non pensate si fermi alla frontiera di Chelm.

Aiuto politico per l’ingresso in Unione europea, a iniziare dal prossimo Consiglio europeo del 23 giugno. E poi il secondo perno della discussione, introdotto senza enfasi ma neanche senza pudori: gli aiuti militari. Il numero – è il ragionamento – è a favore dei russi, che hanno la possibilità di rimpiazzare le perdite.

La variabile per la difesa è la disponibilità tecnologica di armi a disposizione, in grado di colmare il gap dimensionale. In caso contrario, addio Ucraina e al suo posto una fascia che va dalla Transnistria al Donbass passando per Odessa che viene ribattezzata “Novorossjia” e che preclude l’accesso al mare alla terra del grano, spezzata magari a sua volta in due tra un protettorato russo a est del Dnipro e un landa abbandonata a una sterile neutralità a ovest. Con lo zar padrone del mar Nero insieme con Recep Tayyip Erdoğan.

“È come se avessimo un cancro dentro: ti vuoi sentir dire dal medico che sopravviverai», ci dicono. E il pensiero non può non correre a qualche solone mediatico di casa nostra, che ritiene di aver conquistato la licenza e il camice del medico televisivo anche se non si capisce bene chi glieli abbia attribuiti (qui risponderebbero “vedi alla voce disinformacjia” ma subito qualcuno in Italia griderebbe alla paranoia maccartista).

Il copione degli incontri scorre su questi binari tracciati: l’importanza dell’adesione dell’Ucraina alla Ue, la richiesta di aiuti militari e tecnologici, cui si aggiunge nell’incontro con la deputy speaker della Rada (il parlamento, nel cui giardino sono scavate le trincee e alle cui finestre campeggiano sacchi di sabbia e cecchini) la richiesta di istituzione del tribunale di guerra internazionale contro i crimini di guerra.

La tappa più difficile, Bucha

E qui si apre la fase umanamente più difficile della trasferta. Sta tutta dentro gli occhi di padre Andrej Golovin, che ci accoglie sul vialetto che ci porta alla chiesa di Sant’Andrea a Bucha dentro un saio cachi, un crocifisso al collo reliquia di un suo pellegrinaggio a Roma e due occhi nei quali leggi tutta la tristezza del mondo.

Pochi passi, e siamo davanti al teatro dell’orrore: sotto questa terra si è materializzata la piccola Srebrenica ucraina, la Marzabotto della terra del grano, l’orrenda materializzazione di dove porta la retorica del sangue e del suolo esplosa all’ennesima potenza.

«Sono venuti i russi, poi sono andati via. Poi sono tornati con una lista, entravano casa per casa. E li portavano qui. Per alcuni, non si scomodavano neppure di metterli in fila. Si sparava direttamente loro addosso».

I cadaveri per strada. La fossa comune nel giardino di Sant’Andrea, dove ora su questa terra sta ricrescendo l’erba. 462 morti, gettati nella fossa comune dentro sacchi di plastica nera. Era il 20 per cento della popolazione rimasta in questo sobborgo residenziale a 15 chilometri da Kiev, dove la prima linea è passata come l’angelo sterminatore uscito direttamente dalle viscere dell’inferno.

«C’ero anche io su quella lista», ci dice il sindaco, riuscito a mettersi rocambolescamente in fuga in quelle ore tragiche. Bucha non era un obiettivo militare, non aveva dato motivi di rappresaglia. Ma  un alito diabolico planato sulla terra l’ha trasformata in un luogo dove si sono messe in fila le persone, gli si sono legate le mani dietro alla schiena e gli si è sparato a morte.

Le foto esposte all’interno della chiesa, trasformata in mausoleo della testimonianza, raccontano come e dove. Per il rispetto che devo almeno alla memoria di quelle persone, preferisco non addentrarmi nel dettaglio.

Però il dato, la drammatica contabilità, parla chiara: il 93 per cento dei corpi riesumati ha mostrato ferite di armi da fuoco con colpi sparati a bruciapelo. Sedici persone non sono state identificate. Trentasei cadaveri sono stati fatti scomparire.

«Avevano le liste, i nomi dei civili, andavano casa per casa», ripete padre Andrej. E alla domanda più assurda e banale che gli si può porre (“ma perché tutto questo?”) risponde un deputato ucraino che fende la piccola folla che ci ha accolti nel teatro dell’orrore: «Revenge». Vendetta.

Erano convinti di entrare in Kiev tra folle festanti e plaudenti. Glielo avevano annunciato prima che si muovessero dalle loro caserme in Russia. Al più tardi festeggerete in piazza Maidan la sera del 26 febbraio, gli avevano spiegato (secondo una teoria riecheggiata anche in Italia per la quale “tra qualche sera Putin berrà champagne a Kiev”).

E, invece, a posto della cavalcata vittoriosa e gloriosa, hanno trovato i colpi di mortaio, le fucilate dai balconi, i ponti fatti saltare per bloccare l’invasione e creare un ingorgo di 60 chilometri che era diventato il tiro al piccione della difesa ucraina. E quindi «revenge, vendetta».

Uscendo dalla chiesa di Sant’Andrea a Bucha, mi guardo la punta delle scarpe. È come se lo sguardo, dopo essersi tuffato dentro l’orrore di un Novecento che è tornato a inverarsi sulla Terra, non avesse più il coraggio di guardare il cielo e sentisse su di sé il peso terribile della colpa di noi, uomini sazi e pretenziosi, che dopo la shoah, le foibe,i gulag, i pogrom, i killing fields cambogiani, non abbiamo ancora imparato nulla.

Annientamento identitario

Foto Ap

Pochi chilometri, e arriviamo a Borodjanka. Scenari groznyani, o se preferite mariupoliani: palazzoni anneriti e sventrati, piccole case unifamiliari dai tetti sventrati, compound commerciali straziati dai missili e dagli incendi. Qui hanno ucciso 41 persone. E poi hanno impedito per giorni ai familiari di andare a recuperare i cadaveri, lasciati a marcire sotto le travi annerite e i calcinacci di palazzoni figli di una ormai lontana architettura sovietica.

Arrivi al centro del paese, e trovi il busto di Taras Shevchenko: è il padre fondatore della lingua ucraina, il Dante di queste latitudini. Appena entrati in paese, i ceceni guidati da Kadirov hanno minato il monumento e hanno sparato alla testa del busto in bronzo.

Il messaggio è fin troppo chiaro: non devo solo azzerare la tua vita, la sua esistenza di comunità, la tua patria. Devo estirparne l’identità. Il fondatore della lingua ucraina va ucciso nella memoria, per uccidere l’idea che questa non sia “novorossia”.

È su queste macerie che io, invasore, costruirò il mio dominio. Magari urlando, come fanno i ceceni. A Mariupol come in questa landa di tristezza che risponde al nome di Borodjanka.

Ma il triangolo maledetto non è finito. Ci aspetta quello che fino al 24 febbraio era un placido quartiere residenziale alla periferia della grande metropoli, e che per i beffardi capricci di Clio si è improvvisamente trasformata nella linea del fronte, il punto più avanzato da nord dell’invasione russa, il Piave ucraino dove le armate di Putin sono state rinculate: Irpin. 

I bambini di Irpin

Ti fermi davanti ai palazzi, sventrati e incendiati, e senti ancora il puzzo del fumo, che si mescola al profumo delle conifere. Una bandiera ucraina spunta dentro una breccia distrutta. E dietro l’angolo, una scuola materna. Distrutta. Con lo sfregio più assoluto: lo scivolo in acciaio bucato dai colpi d’arma da fuoco.

«Ti uccidiamo i figli, ti estirpiamo il futuro», sembrano dire quei colpi. Sono 300, fino a oggi, i bambini uccisi dentro questa mattanza ucraina. Ma sul muro a fianco, dentro questo ennesimo orrore, qualcuno ha disegnato il segno della speranza su un muro:è la musa Europa che fugge a cavallo di un toro.

La scritta è di una eloquenza tremenda, scritta in ucraino e inglese: “Make Europe, not war”. Dalle lacrime di Irpin risorge una prospettiva di futuro: sapremo costruirlo?

Le ultime parole di Olena Kondriatiuk ci accompagnano dentro, mentre su Kiev scende un tramonto d’arancia che ci accompagna alla stazione insieme con l’ennesima sirena dell’allarme aereo: «Putin vuole sfruttare la fatica di alcune opinioni pubbliche occidentali. Oggi in Ucraina noi stiamo difendendo anche la sicurezza e i valori europei, e le divisioni interne ai vostri paesi vengono abilmente sfruttate da Mosca. Tanto quindi dipende dalle azioni dei Parlamenti nel tenere unite le forze politiche attorno a questi valori. Oggi è l’Ucraina, ma dovete capire che noi ci sentiamo come la Polonia del 1939. Se cadiamo noi, non si fermeranno».

Viste da qui, non sono solo lontane le chiacchiere del circo politico-mediatico nostrano. Appaiono decisamente lunari. Qui nessuno si pone i problemi sofisti che vengono quotidianamente sollevati alle nostre latitudini. Qui si fidano di Mario Draghi (e del ministro Lorenzo Guerini, ce lo confida il viceministro alla Difesa) e sanno che con loro l’Italia non imboccherà la strada della lingua biforcuta.

Qui chiedono solidarietà e sostegno per entrare in Unione europea, per essere europei, per non essere dimenticati e abbandonati sotto le bombe di chi si crede la reincarnazione di Pietro il Grande. E chi chiedono di farlo in fretta.

“World help us” si legge sullo striscione che campeggia in piazza Sofieska, appoggiato sulla ringhiera sopra il monumento ricoperto di sacchi di sabbia. Sapremo aiutarli, o guarderemo altrove? 

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