Il dibattito sul declino degli Stati Uniti è antico quanto il paese stesso. Nato fragile e vulnerabile, con un debole governo centrale e immediate divisioni interne; esposto in Nord America alla minaccia di soggetti imperiali ben superiori, di cui si temevano legittimamente le mire predatorie. Ed è un dibattito che non è venuto meno neanche con l’ascesa degli Usa a indiscussa e prima potenza mondiale.

In epoca contemporanea, abbiamo anzi assistito a numerosi momenti d’intenso confronto politico, pubblico e intellettuale sul presunto, ineluttabile declino degli Usa (o dell’“impero americano” nello slogan maggiormente capace di fare breccia nella cultura popolare).

Dal Vietnam alle Torri gemelle

Negli anni Settanta, con l’umiliante sconfitta in Vietnam, le proteste interne, il Watergate (e il contestuale e irreversibile crollo della fiducia nella politica e nelle istituzioni), la crisi del dollaro, la stagflazione.

A cavallo tra anni Ottanta e Novanta, dove le celebrazioni trionfalistiche per la vittoria nella Guerra fredda furono subito temperate dal diffuso convincimento che gli Usa soffrissero anch’essi di «sovraestensione imperiale» – nella fortunata formulazione dello storico britannico Paul Kennedy – che nuovi rivali, Giappone su tutti, stessero emergendo, e che il desolante e degradato paesaggio post-industriale di pezzi importanti d’America mostrasse la portata e l’inevitabilità di questo declino.

Nei primi anni Duemila, dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre o, ancor più, il tornante del 2008, quando il combinato disposto della crisi finanziaria globale e del fallimento delle guerre americane del XXI secolo, Iraq e poi Afghanistan, parve davvero segnalare la fine del lungo “secolo americano”.

Il contesto globale

In ciascuno di questi momenti, gli Stati Uniti sembrarono però capaci di risollevarsi: di ripensare e rilanciare gli elementi fondamentali della loro superiore potenza, dall’impareggiabile hard power militare al dinamismo innovativo di un’economia della conoscenza e dei servizi avanzati, dall’“esorbitante privilegio” di un dollaro egemonico grazie al quale si finanziavano deficit e debiti al fascino ammaliante e ancora irresistibile del loro soft power.

Questa persistenza della potenza americana si manifestava però contestualmente a processi che ne alteravano la natura, le imponevano costrizioni nuove e, in parte, ne erodevano le fondamenta.

I processi d’integrazione globale, che gli Usa sostenevano e cavalcavano, inserivano anche l’unica grande potenza mondiale entro un reticolo d’interdipendenze globali che ne limitava l’autonomia e in ultimo la sovranità. Condizione ineludibile della contemporaneità, l’interdipendenza si è manifestata in forme diverse e potenti.

Da armi nucleari che rendevano tutti sistematicamente (ed esistenzialmente) vulnerabili a catene transnazionali di valore in cui produzione e distribuzione si dispiegavano segmentate in tanti stadi.

Da flussi di capitale incontrollati a un debito statunitense che non solo cresceva a dismisura ma era vieppiù acquistato da investitori esteri – la loro quota totale è passata dal 5 al 30 per cento in mezzo secolo – intenti a sussidiare un paese, gli Stati Uniti, che ha continuato a vivere ben al di sopra delle sue possibilità.

Spegnere l’incendio

Sul piano interno, questo paese era lacerato da fratture politiche sempre più profonde. La polarizzazione politica ed elettorale alimentava la crescente disfunzionalità di una democrazia anziana, affaticata e anacronistica in tanti dei suoi meccanismi di funzionamento. Ed esasperava una radicalizzazione particolarmente visibile dentro un partito repubblicano conquistato da frange estreme e, come avremo poi visto, eversive.

Ci sarebbero volute (e ci vorrebbero oggi) competenza e umiltà per gestire con attenzione i delicati equilibri dell’interdipendenza, l’inevitabile ripensamento dei fondamenti della globalizzazione imposto dalla crisi del 2008 e la ricomposizione di almeno alcune delle fratture politiche e culturali dell’America contemporanea.

Accettando se necessario un ridimensionamento della influenza globale degli Stati Uniti, peraltro già evidenziato da alcuni banali dati economici (la percentuale del Pil statunitense rispetto a quello globale è passata dal 50 per cento del 1950 al 25 per cento attuale).

Ci sarebbero voluti, insomma, statisti consapevoli capaci di spegnere un incendio che iniziava a divampare e un paese responsabile in grado di riconoscerli e di non cadere preda delle grossolane sirene del demagogo di turno.

Ci siamo invece ritrovati per due volte con un piromane spregiudicato, corrotto e incompetente nella stanza dei bottoni. Capace di dare corso a un’azione eversiva per evitare di riconoscere la sconfitta elettorale nel 2020. Di promuovere un disegno scopertamente autoritario quattro anni più tardi.

Di mandare quasi all’aria l’economia statunitense, e con essa quella globale, nei suoi vaneggiamenti tardo-imperiali. Di fare sì che, in un momento di crollo delle borse, i titoli di stato italiani o greci fossero di molto più appetibili per gli investitori internazionali di quelli statunitensi. A segnalare che questa volta, dopo tanto abbaiare alla luna, il declino americano è forse davvero arrivato.

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